Commento al Vangelo della II Domenica del Tempo Ordinario Anno B (14 gennaio 2024)

«Maestro, dove dimori? Venite e vedrete»!

Con la scorsa Domenica, nella quale abbiamo celebrato il Battesimo del Signore, è iniziato il tempo ordinario dell’anno liturgico. La bellezza di questo tempo sta nel fatto che ci invita a vivere la nostra vita ordinaria come un itinerario di santità, e cioè di fede e di amicizia con Gesù, continuamente scoperto e riscoperto quale Maestro e Signore, Via, Verità e Vita dell’uomo. È quanto, nell’odierna liturgia, ci suggerisce il Vangelo di Giovanni, presentandoci il primo incontro tra Gesù e alcuni di quelli che diventeranno suoi apostoli. Costoro erano discepoli di Giovanni Battista, e fu proprio lui a indirizzarli a Gesù, quando, dopo il Battesimo nel Giordano, lo indicò come «l’Agnello di Dio». Due dei suoi discepoli, allora, seguirono il Messia, il quale domandò loro: «Che cosa cercate?». I due gli domandarono: «Rabbì – che tradotto significa maestro -, dove dimori?». E Gesù rispose: «Venite e vedrete», li invitò cioè a seguirlo e a stare un po’ con Lui. Quei due non potranno più dimenticare la bellezza di quell’incontro, al punto che l’evangelista ne annota persino l’ora: «Erano circa le quattro del pomeriggio». Essi, dunque, rimasero così colpiti nelle poche ore trascorse con Gesù, che subito uno di loro, Andrea, ne parlò al fratello Simone dicendogli: «Abbiamo trovato il Messia». Ecco due parole singolarmente significative: «cercare», «trovare».

Possiamo estrarre dalla pagina evangelica odierna questi due verbi e ricavare un’indicazione fondamentale per il nuovo anno, che vogliamo sia un tempo in cui rinnovare il nostro cammino spirituale con Gesù, nella gioia di cercarlo e di trovarlo incessantemente. La gioia più vera, infatti, sta nel rapporto con Lui incontrato, seguito, conosciuto, amato, grazie ad una continua tensione della mente e del cuore. Soltanto un incontro personale con Gesù genera un cammino di fede e di discepolato. Potremmo fare tante esperienze, realizzare molte cose, stabilire rapporti con tante persone, ma solo l’appuntamento con Gesù, in quell’ora che Dio conosce, può dare senso pieno alla nostra vita e rendere fecondi i nostri progetti e le nostre iniziative.

Non basta, dunque, costruirsi un’immagine di Dio basata sul sentito dire; bisogna andare alla ricerca del Maestro divino e andare dove Lui abita. La richiesta dei due discepoli a Gesù: «Dove dimori?», ha un senso spirituale forte: esprime il desiderio di sapere dove abita il Maestro, per poter stare con Lui. La vita di fede consiste nel desiderio di stare con il Signore, e dunque in una ricerca continua del luogo dove Egli abita. Questo significa che siamo chiamati a superare una religiosità abitudinaria e scontata, ravvivando l’incontro con Gesù nella preghiera, nella meditazione della Parola di Dio e nella frequenza ai Sacramenti, per stare con Lui e portare frutto grazie a Lui, al suo aiuto, alla sua grazia.

Essere discepolo di Cristo: questo basta al cristiano. L’amicizia col Maestro assicura all’anima pace profonda e serenità anche nei momenti bui e nelle prove più ardue. Quando la fede si imbatte in notti oscure, nelle quali non si «sente» e non si «vede» più la presenza di Dio, l’amicizia di Gesù garantisce che in realtà nulla può mai separarci dal suo amore (cf Rm 8,39).

Cercare e trovare Cristo, sorgente inesauribile di verità e di vita: la parola di Dio ci invita a riprendere, all’inizio di un nuovo anno, questo cammino di fede mai concluso. «Maestro, dove dimori?», diciamo anche noi a Gesù ed Egli ci risponde: «Venite e vedrete». Per il credente è sempre un’incessante ricerca e una nuova scoperta, perché Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre, ma noi, il mondo, la storia, non siamo mai gli stessi, ed Egli ci viene incontro per donarci la sua comunione e la pienezza della vita.

Chiediamo alla Vergine Maria di aiutarci a seguire Gesù, «l’Agnello di Dio», gustando ogni giorno la sua Parola di vita, per aderire a Lui che toglie il peccato del mondo e penetrare sempre più nel suo mistero di amore. Amen!

 

Commento al Vangelo della II Domenica di Pasqua (Domenica della Divina Misericordia) Anno A (16 aprile 2023)

Gesù, confido in te!

L’odierna domenica conclude l’Ottava di Pasqua, come un unico giorno “fatto dal Signore”, contrassegnato con il distintivo della Risurrezione e della gioia dei discepoli nel vedere Gesù. Fin dall’antichità questa domenica è detta “in albis”, dal nome latino “alba”, dato alla veste bianca che i neofiti indossavano nel Battesimo la notte di Pasqua e deponevano dopo otto giorni, cioè oggi. San Giovanni Paolo II ha intitolato questa stessa domenica alla Divina Misericordia, in occasione della canonizzazione di Suor Maria Faustina Kowalska, il 30 aprile del 2000.

Ebbene, di misericordia e di bontà divina è ricca la pagina del Vangelo di san Giovanni di questa Domenica. Vi si narra che Gesù, dopo la Risurrezione, visitò i suoi discepoli la sera del giorno stesso della Risurrezione, «il primo della settimana», e poi «otto giorni dopo», varcando le porte chiuse del Cenacolo. Sant’Agostino spiega che «le porte chiuse non hanno impedito l’entrata di quel corpo in cui abitava la divinità. Colui che nascendo aveva lasciata intatta la verginità della madre poté entrare nel cenacolo a porte chiuse» (cf in Ioh. 121,4: CCL 36/7,667); e san Gregorio Magno aggiunge che «il nostro Redentore si è presentato, dopo la sua Risurrezione, con un corpo di natura incorruttibile e palpabile, ma in uno stato di gloria» (cf Hom. in Evag., 21,1: CCL 141,219).

Gesù, dunque, mostra agli apostoli i segni della passione, fino a concedere all’incredulo Tommaso di toccarli. Tommaso, scrive l’autore sacro, «non era con loro quando venne Gesù» e, quando gli altri discepoli gli hanno detto che avevano visto il Signore, lui ha risposto: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo». Tommaso rappresenta tutti noi, che non eravamo presenti nel cenacolo quando il Signore è apparso e non abbiamo avuto altri segni fisici o apparizioni da parte sua. Anche noi, come quel discepolo, a volte facciamo fatica: come si fa a credere che Gesù è risorto, che ci accompagna ed è il Signore della nostra vita senza averlo visto, senza averlo toccato? Come si fa, a credere questo? Perché il Signore non ci dà qualche segno più evidente della sua presenza e del suo amore? Qualche segno che io possa vedere meglio? Ecco, anche noi siamo come Tommaso, con gli stessi dubbi, gli stessi ragionamenti.

Ma non dobbiamo vergognarci di questo. Raccontandoci la storia di Tommaso, il Vangelo ci dice che il Signore non cerca cristiani perfetti, cristiani che non dubitano mai e ostentano sempre una fede sicura. Essa conosce tempi di consolazione, di slancio e di entusiasmo, ma anche stanchezze, smarrimenti, dubbi e oscurità. Il Vangelo ci mostra la “crisi” di Tommaso per dirci che non dobbiamo temere le crisi della vita e della fede. Le crisi non sono peccato, sono cammino, non dobbiamo temerle. Tante volte ci rendono umili, perché ci spogliano dall’idea di essere a posto, di essere migliori degli altri. Le crisi ci aiutano a riconoscerci bisognosi: ravvivano il bisogno di Dio e ci permettono così di tornare al Signore, di toccare le sue piaghe, di fare nuovamente esperienza del suo amore, come la prima volta. Pensiamo a san Francesco d’Assisi e a tanti altri santi. È meglio, dunque, una fede imperfetta ma umile, una fede che sempre ritorna a Gesù, anziché una fede forte ma presuntuosa, che rende orgogliosi e arroganti!

Tommaso, scrive Giovanni, davanti al Signore che lo invitava a mettere il dito nelle piaghe e nel fianco – «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!» – esclama dicendo: «Mio Signore e mio Dio!». Tommaso, toccando le ferite del Signore, guarisce non solo la propria ma anche la nostra diffidenza.

L’autore sacro, inoltre, scrive che per due volte Gesù disse ai discepoli: «Pace a voi!», e aggiunse: «Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò su di loro, dicendo: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati». È questa la missione della Chiesa perennemente assistita dal Paraclito: portare a tutti il lieto annuncio, la gioiosa realtà dell’Amore misericordioso di Dio, «perché – come dice san Giovanni – crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome».

Ed infine il saluto «Pace a voi!». Il saluto tradizionale, con cui ci si augura lo shalom, la pace, diventa qui una cosa nuova: diventa il dono di quella pace che solo Gesù può dare, perché è il frutto della sua vittoria radicale sul male. La «pace» è il dono che Cristo ha lasciato ai suoi amici (cf Gv 14,27) come benedizione destinata a tutti gli uomini e a tutti i popoli. Non la pace secondo la mentalità del “mondo”, come equilibrio di forze, ma una realtà nuova, frutto dell’Amore di Dio, della sua Misericordia. È la pace che Gesù Cristo ha guadagnato a prezzo del suo Sangue e che comunica a quanti confidano in Lui. «Gesù, confido in te»: in queste parole si riassume la fede del cristiano, che è fede nell’onnipotenza dell’Amore misericordioso di Dio.

Accogliamo il dono della pace che ci offre Gesù risorto e lasciamoci riempire il cuore dalla sua misericordia! Maria Santissima, Madre di Misericordia e Regina della pace, ci aiuti a lasciarci rinnovare dallo Spirito Santo affinché possiamo essere apostoli di pace e ci accompagni nel cammino della fede e dell’amore. Amen!

 

Il valore della Santa Messa


Un giorno di molti anni fa, in un piccolo villaggio del Lussemburgo, un capitano della Guardia Forestale stava conversando con il macellaio quando arrivò un’anziana signora. Il macellaio chiese all’anziana signora:

Cosa vi servo, signora?”.

La donna rispose:

Il capitano che era lì presente sorrise visibilmente pensando alla stranezza della richiesta.

Un pezzetto di carne, ma non ho soldi per pagare”.

Il macellaio ribatté:

Solo un pezzetto di carne, ma come contraccambiate?”.

L’anziana signora disse allora al macellaio:

Mi dispiace di non avere soldi, ma in cambio vi prometto di assistere quest’oggi alla Messa per voi”.

Siccome il macellaio e il capitano erano molto scettici nei confronti della religione, cominciarono a ridere.

Molto bene – disse il macellaio – Andate pure a Messa per me, e ritornando, vi darò l’equivalente del valore della Messa”.

La donna in quel giorno assistette alla Messa e poi ritornò dal negoziante. Ella si avvicinò alla cassa e il macellaio le disse:

Prendete questa carta e scrivete…”.

E la donna scrisse:

Ho offerto la Messa per te”.

Il macellaio pose la carta su un piatto della bilancia e sull’altra parte un misero osso… la carta era più pesante. In seguito mise un pezzetto di carne al posto dell’osso, ma la carta era sempre più pesante… I due uomini cominciarono a meravigliarsi ma non demorsero. Fu posto un grosso pezzo di carne sulla bilancia, ma la carta era sempre più pesante. Inquieto e turbato, il macellaio esaminò la bilancia, ma questa funzionava benissimo.

Allora il macellaio, disse:

Cosa vuole signora…? Dovrei darle un’intera coscia di pecora?”.

Egli pose la coscia di pecora sulla bilancia, ma la carta era sempre più pesante. Mise un pezzo di carne ancora più grosso, ma il peso rimaneva sempre dalla parte della carta. Ciò impressionò talmente il macellaio che questi promise alla donna di darle la carne ogni giorno in cambio di una preghiera offerta per lui durante la Messa. Egli poi si convertì. Il capitano se ne andò anche lui molto scosso e andò a Messa ogni giorno.

Due dei suoi figli divennero sacerdoti, uno Gesuita e l’altro fu sacerdote del Sacro Cuore, era il famoso Padre Stanislao, grande apostolo del Sacro Cuore. Egli poi ha raccontato: “Sono un religioso del Sacro Cuore e il capitano era mio padre. Dopo questa dimostrazione, mio padre divenne un grande fervente della Messa quotidiana, e noi, suoi figli, abbiamo seguito il suo esempio. Andate a Messa ogni giorno se potete, otterrete tutto e vi trasformerete”.

Commento al Vangelo della II Domenica di Pasqua Anno C (24 aprile 2022)

Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!

In questa 2ª domenica di Pasqua, detta anche della Divina Misericordia, la liturgia della parola ci fa leggere il vangelo dell’apparizione di Gesù a Tommaso. Il discepolo, assente alla prima apparizione del Risorto, è incredulo, ha difficoltà a credere agli amici che gli dicono di aver visto il Signore Gesù. Giovanni annota che Tommaso disse ai discepoli: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo». Otto giorni dopo la sua resurrezione, il Risorto si manifesta per la seconda volta ai suoi discepoli e, questa volta, è presente anche Tommaso. Con infinita pazienza il Signore, rivolgendosi a questo apostolo incredulo, dice: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere più incredulo, ma credente!». Allora il discepolo giunge finalmente a comprendere ed esclama: «Mio Signore e mio Dio!». Questa risposta di Tommaso è una confessione di fede totale e perfetta che non ha eguali in tutto il Nuovo Testamento.

È faticoso giungere alla fede nella resurrezione, per noi come per Tommaso. Egli non ha avuto bisogno di «mettere il dito», eppure ha dovuto vedere con i suoi occhi; ma è grazie a lui che Gesù, riconoscendo la fede di Tommaso, pronuncia la sua ultima beatitudine: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!».

Tommaso, chiamato «Didimo», che significa «gemello», certamente non brillava per l’umiltà. È stato diffidente nel credere alla resurrezione del Signore. La sua diffidenza aveva certamente una radice di presunzione. Certamente avrà pensato: “Come può Gesù apparire agli altri mentre io ero assente?”. Oggi tanta gente assomiglia a Tommaso perché ha difficoltà a credere. Quante volte, soprattutto nei momenti di difficoltà, malattia, sofferenza, facciamo fatica a credere nel Signore. Quante volte diciamo: «Dio mi ha abbandonato!». Dio non abbandona nessuno; siamo noi che ci allontaniamo da lui e lo abbandoniamo perché il nostro cuore è chiuso al suo amore, alla sua misericordia. Il nostro cuore, purtroppo, è incrostato di presunzione, arroganza, superbia!

E allora chiediamoci: ma noi crediamo realmente nel Risorto? Noi che siamo cristiani, che argomenti offriamo per aiutare gli altri a credere? La fede ha bisogno di testimonianza: noi che esempio diamo a coloro che cercano il Signore? Non è possibile, diceva santa Madre Teresa di Calcutta, andare a Messa, impegnarsi nell’apostolato, e poi scandalizzare le persone con il nostro comportamento egoistico, presuntuoso e superbo. Ricordiamoci che Dio non guarda l’aspetto esteriore, come facciamo noi, ma il nostro cuore.

Tutti noi che ogni domenica, giorno del Signore, ci raduniamo come comunità cristiana in ascolto della parola di Dio contenuta nelle Sacre Scritture, per l’azione dello Spirito Santo e con l’aiuto di Maria Santissima impariamo a vincere l’incredulità e soprattutto abbiamo il coraggio di spalancare la porta del nostro cuore al «Vivente, a Colui che era morto ma ora vive per sempre» (II Lettura) per testimoniare, con segni di amore fraterno, la Risurrezione del Signore Gesù.

Commento al Vangelo nella solennità di Tutti i Santi Anno B (1° novembre 2021)

Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli

La Chiesa, ancora pellegrina sulla terra, in questa celebrazione venera la solennità di Tutti i Santi. I Santi non sono modelli perfetti, ma persone che hanno vissuto per Cristo, amando Dio e il prossimo nella vita di ogni giorno. Possiamo paragonarli alle vetrate delle chiese, che fanno entrare la luce in diverse tonalità di colore. I Santi sono nostri fratelli e sorelle che hanno accolto la luce di Dio nel loro cuore e l’hanno trasmessa al mondo, ciascuno secondo la propria tonalità. Pensiamo ad un vivaio botanico; nel visitarlo si rimane stupefatti dinanzi alla varietà di piante e di fiori, e viene spontaneo pensare alla fantasia del Creatore che ha reso la terra un meraviglioso giardino. Analogo sentimento ci coglie quando consideriamo lo spettacolo della santità: il mondo ci appare come un “giardino”, dove lo Spirito di Dio ha suscitato con mirabile fantasia una moltitudine di Santi e Sante, di ogni età e condizione sociale, di ogni lingua, popolo e cultura. Ognuno diverso dall’altro, con la singolarità della propria personalità umana e del proprio carisma spirituale. Però, nonostante la diversità, tutti sono stati trasparenti, hanno lottato per togliere le macchie e le oscurità del peccato, così da far passare la luce dolce e gentile di Dio. Questo è lo scopo della vita, lo scopo della nostra vita: far passare la luce di Dio nel nostro cuore per poterlo un giorno contemplare nella Santa Gerusalemme.

Ecco perché la solennità di Tutti i Santi è la festa della Speranza! Speranza di poter vedere un giorno Dio così come egli è: «Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è» (II Lettura).

A molti, i Santi sembrano personaggi anacronistici e carichi di polvere. E muovono due difficoltà.

La prima è questa. Il mondo di oggi è adulto e quindi non ha bisogno di modelli da seguire. Questa prima difficoltà è banale, non vera, perché il mondo di oggi ha un vero e proprio culto per gli idoli dello sport, della canzone, del cinema, dello spettacolo etc.; ciò dimostra che l’uomo ha sempre bisogno di modelli.

La seconda difficoltà è più insidiosa. Molti dicono: “Se Dio è tutto, perché i Santi?”. Chi ragiona in questo modo non sa che la gioia di Dio sta proprio nel chiamare l’uomo a collaborare, nel renderlo partecipe della sua vita e quindi di tutte le ansie di misericordia che sono nel cuore dell’Eterno Padre. I Santi non suscitano concorrenza all’opera di Dio, così come un figlio vero non sarà mai rivale di un padre vero.

Ma chi sono i Santi? I Santi sono coloro che contemplano il volto misericordioso della Santa Trinità, sono gli amici di Dio, coloro che hanno fatto della carità, dell’amicizia fraterna e della giustizia il loro stile di vita; sono coloro che hanno vinto il proprio egoismo e hanno messo al centro della loro esistenza il Vangelo e l’amore come servizio per gli ultimi. Sono i fratelli maggiori che la Chiesa ci propone come modelli perché, peccatori come ognuno di noi, tutti hanno accettato di lasciarsi incontrare da Gesù, attraverso i loro desideri, le loro debolezze, le loro sofferenze, e anche le loro tristezze. I Santi, dunque, non sono superuomini e non lo saranno mai. Non sono nati perfetti, sono come noi, come ognuno di noi; persone che prima di raggiungere la gloria del cielo hanno vissuto una vita normale, con gioie e dolori, fatiche e speranze. La santità non è un lusso e un privilegio per pochi, ma è una vocazione per tutti. Tutti siamo chiamati a camminare sulla via della santità. Non è necessario chiudersi in un convento per essere santi. Tantissimi Santi non hanno neppure conosciuto il convento: basti pensare agli apostoli, ai martiri dei primi secoli, a santi che sono stati genitori, etc.

Essere santi significa non conformarsi alla mentalità del mondo. Oggi, tutti vogliono il successo, il potere, il denaro: il santo, invece, si fa povero, umile, perché ha trovato Dio e le cose del mondo non lo attirano più. Oggi, tutti vogliono vendicarsi se ricevono male: il santo, invece, è una persona mite che non si vendica ma che perdona come Gesù ha perdonato. Oggi, tutti pensano a sé: il santo, invece, ama il prossimo come se stesso. Oggi, tutti si lamentano delle prove, delle difficoltà che la vita presenta: il santo, invece, esulta perché nelle prove già sente i suoni di una festa che si avvicina e vede la luce di un giorno che sta per nascere. Il santo è colui che ha fissa nella mente una parola di Gesù: «Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli» (Vangelo). Questa è la strada seguita dai Santi: “le beatitudini”. Per ben nove volte l’evangelista Matteo riporta il termine «Beati». Per essere beati non si richiedono gesti eclatanti, da super eroi; ma vivere ogni giorno mettendo in pratica la Parola di Dio e fare la sua santa volontà. I Santi, come noi, hanno respirato l’aria inquinata dal male, dalla corruzione, dall’ipocrisia che c’è nel mondo, ma nel loro pellegrinaggio terreno non hanno perso mai di vista il tracciato di Gesù, quello indicato nelle beatitudini, che sono la mappa della vita cristiana. Oggi, quindi, è la festa di quelli che hanno raggiunto la meta indicata da questa mappa: non solo i Santi del calendario, ma tanti fratelli e sorelle della “porta accanto”, che magari abbiamo incontrato e conosciuto. L’apostolo ed evangelista Giovanni, nel Libro dell’Apocalisse, parla di una moltitudine immensa “centoquarantaquattromila”. Questo numero è simbolico; sta ad indicare che i Santi sono tantissimi: «E udii il numero di coloro che furono segnati con il sigillo: centoquarantaquattromila segnati, provenienti da ogni tribù dei figli d’Israele» (I Lettura). Essere “segnati dal sigillo” significa avere impressa l’impronta di Gesù, del suo amore, testimoniato attraverso la croce.

L’esperienza della Chiesa dimostra che ogni forma di santità passa sempre per la via della croce, della rinuncia a se stesso. Le biografie dei Santi descrivono uomini e donne che, docili ai disegni divini, hanno affrontato talvolta prove e sofferenze indescrivibili, persecuzioni e martirio. Però hanno perseverato nel loro impegno: «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello» (Ap. 7, 14), «i loro nomi sono scritti nel libro della vita» (Ap 20, 12) e la loro dimora è il Paradiso. L’esempio dei Santi deve essere per noi un incoraggiamento a seguire le stesse orme, a sperimentare la gioia di chi si fida di Dio, perché l’unica vera causa di tristezza e di infelicità per l’uomo è vivere lontano da Lui. Per tale motivo i Santi ci spronano a non fermarci lungo la strada, ci stimolano a continuare a camminare verso la meta nonostante le nostre imperfezioni e cadute. Sant’Agostino diceva: «Se è stato possibile per loro, perché non per noi?». La santità, quindi, è per tutti perché apparteniamo a Dio: siamo figli suoi.  

Concludo con le parole pronunciate da san Paolo VI durante l’Udienza generale del 16 marzo 1966: «[…] Ogni cristiano dev’essere un vero cristiano, un perfetto cristiano, perciò ogni cristiano dev’essere santo! Occorrono due cose per fare la santità: la grazia di Dio e la buona volontà. Avete voi queste due cose? sì? Allora siete santi! Intendiamoci: la santità è unica: consiste nell’essere uniti a Dio, vitalmente, mediante la carità; ma si realizza in tante forme diverse, e anche in tante misure diverse. È diversa la bontà, cioè la santità, d’un bambino dalla bontà d’una persona adulta; è diversa la bontà d’un uomo da quella di una donna; la bontà d’un soldato è diversa da quella, per così dire, d’un malato, o d’un vecchio! Ogni condizione di vita ha le sue virtù particolari. Ogni persona, possiamo dire, ha la sua propria maniera di realizzare la santità, a seconda delle proprie attitudini e dei propri doveri. Ma quello che dobbiamo ricordare è questo: ognuno di noi è chiamato ad essere santo, cioè ad essere veramente buono, veramente cristiano».

Commento al Vangelo della XII Domenica del Tempo Ordinario Anno B (20 giugno 2021)

Signore, aumenta la nostra fede in Te!

Il Vangelo di questa Domenica è quello della tempesta sedata. Ricostruiamo velocemente l’accaduto. Marco scrive che «venuta la sera», Gesù sale sulla barca e dice agli apostoli: «passiamo all’altra riva». L’evangelista annota che mentre Gesù era in barca con gli apostoli «se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva». Intanto si leva una grande tempesta che getta acqua dentro la barca, tanto che ormai è piena (il lago di Galilea è un piccolo lago, ma è famoso per le burrasche improvvise che vi si scatenano a causa della particolare configurazione geografica delle montagne all’intorno). Preoccupatissimi, gli apostoli, svegliano Gesù, gridandogli: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?». Destatosi, Gesù ordina al mare di calmarsi: «Taci, calmati!». Il vento cessò e si fece grande bonaccia. Poi disse loro: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?».

In che cosa è consistita la mancanza di fede degli apostoli? Non tanto nel fatto che non hanno creduto nella potenza di Gesù, quanto nel fatto che hanno dubitato del suo amore. Hanno messo in dubbio che a Gesù importasse davvero di loro, della loro vita e incolumità. Hanno messo in dubbio la capacità o volontà di Cristo di prendersi cura delle persone a lui affidate, il suo altruismo, la sua premura per gli altri.

Ebbene, cerchiamo ora di cogliere il messaggio contenuto in questa pagina del Vangelo. La traversata del mare di Galilea indica la traversata della vita. Il mare è la mia famiglia, la mia comunità, il mio stesso cuore. Piccoli mari, ma in cui si possono scatenare grandi e improvvise tempeste. Chi non ha conosciuto tempeste nella sua vita, quando tutto si oscura e la barchetta della nostra vita comincia a fare acqua da tutte le parti, mentre Dio sembra essere assente o dormire? Un responso allarmante del medico, ed eccoci in piena tempesta. Un figlio che prende una brutta strada e fa parlare di sé, ed ecco i genitori in piena tempesta. Un rovescio finanziario, la perdita del lavoro, dell’amore del fidanzato, del coniuge, ed eccoci in piena tempesta. Che fare? A che cosa attaccarci e da che parte gettare l’ancora? Gesù non ci dà la ricetta magica su come scansare nella vita tutte le tempeste. Non ci ha promesso di evitarci tutte le difficoltà; ci ha promesso invece la forza per superarle, se ovviamente gliela chiediamo.

San Paolo ci parla di un problema serio che ha dovuto fronteggiare nella sua vita e che chiama «la sua spina nella carne» (cf 2Cor 12,7). «Tre volte» (cioè infinite volte), dice, «ho pregato il Signore che l’allontanasse da me» (cf 2Cor 12,8) e finalmente il Signore mi ha risposto. Cosa gli ha risposto il Signore? Egli, scrive Paolo, «mi ha detto: “Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza”» (cf 2Cor 12,9).

Da quel giorno, scrive l’apostolo, «Mi sono vantato ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte» (cf 2Cor 12,9-10).

Il messaggio del Vangelo, dunque, è la fiducia in Dio. Anche quando Dio sembra assente, sembra lontano, egli, in realtà, è sempre con noi. E allora, nei momenti bui, nelle tempeste della nostra vita, non rivolgiamoci al Signore con tono di accusa, ma chiediamo a lui di aumentare la nostra fede.

Ciò che salvò i discepoli dal naufragio fu il fatto che «avevano preso con sé Gesù nella barca», prima di iniziare la traversata. E questa è anche per noi la garanzia migliore contro le tempeste della vita. Avere con noi Gesù. Il mezzo per tenere Gesù dentro la barchetta della propria vita e della propria famiglia è la fede, la preghiera e l’osservanza dei comandamenti. Le prove ci sono per tutti: ma nella prova si vede chi crede in Dio; e nella prova si vede anche chi si illude di credere in Dio. Gli anni della vita terrena sono tempo di verifica per tutti!

Nel passato, quando in mare si scatenava la tempesta, i marinai erano soliti gettare olio sui flutti per placarli. Gettiamo anche noi sui flutti della paura e dell’angoscia l’olio della fiducia in Dio. San Pietro esortava i primi cristiani ad avere fiducia in Dio nelle persecuzioni dicendo: «riversate su di lui ogni vostra preoccupazione, perché egli ha cura di voi» (cf 1Pt 5,7).

Ebbene sì, Dio «ha cura» di noi, a lui «importa» di noi e come!

Voglio concludere con un aneddoto che a me piace molto. Un uomo fece un sogno. Vedeva due paia di orme che si stampavano sulla sabbia del deserto e capiva che un paio erano le orme dei suoi piedi e l’altro dei piedi di Gesù che gli camminava a fianco. A un certo punto, il secondo paio di orme scompare e capisce che questo avviene proprio in corrispondenza di un momento difficile della sua vita. Allora si lamenta con Cristo che lo ha lasciato solo nel momento della prova dicendo: «Ma dove eri mentre io avevo bisogno di te?». «Ma io ero con te!», risponde Gesù. «Come eri con me, se sulla sabbia non c’erano che le orme di due piedi?». «Erano le mie!», risponde Gesù. «In quei momenti ti avevo preso sulle mie spalle!».

E allora ricordiamoci sempre che Dio non ci lascia e non ci lascerà mai soli perché lui, che è Amore infinito, veglia sempre sul nostro cammino fino alla fine del nostro pellegrinaggio terreno. Chiediamo dunque al Signore che aumenti ogni giorno la nostra fede in Lui. Amen. 

Commento al Vangelo della VI Domenica di Pasqua Anno B (9 maggio 2021)

Dio si conosce amando

 Nelle letture di questa domenica è evidente e centrale il tema dell’amore. Questo, che è un argomento ricorrente nella prima Lettera di Giovanni, lo è anche nel brano del Vangelo dello stesso Giovanni che ci viene proposto oggi.

Giovanni, nella sua Lettera (seconda lettura) rivela che Dio è Amore. Tra le tante definizioni di Dio (essere perfettissimo, motore immobile, colui che è…), questa è certamente la più singolare e consolante. Dio non è responsabile del male che c’è nel mondo, Dio non manda i terremoti e le inondazioni, così come noi non siamo consegnati a un destino cieco e senza speranza, perché Dio è Amore e ci ama. «Dio non fa preferenza di persone» (prima lettura). Giovanni precisa che «Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore». Questa affermazione significa che se non siamo capaci di amare coloro che ci offendono, vuol dire che non abbiamo la carità di Dio e quindi non conosciamo Dio; se non siamo capaci di generosità senza aspettare ricompense, vuol dire che non abbiamo la carità di Dio e quindi siamo fuori della vita eterna; se non ci preoccupiamo di dare al prossimo  il nostro tempo, la nostra attenzione, il nostro affetto, il nostro servizio, noi non abbiamo carità e quindi nell’anima siamo già morti perché «chi non ama rimane nella morte» (cf 1Gv 3,14). Per questo solo chi ama può conoscere Dio perché lui ci ha amati per primo, di un amore senza misura, donandoci suo Figlio che si è offerto come «vittima di espiazione per i nostri peccati». Il cristianesimo, infatti, è annuncio di carità, di amore. La preghiera, la messa, l’eucaristia, l’adorazione, il rosario devono servire a farci crescere nella carità. Se tutto ciò non ci fa crescere nella carità non sono incontri con Dio, perché Dio è carità, è Amore e chi incontra Dio, necessariamente cresce nella carità. Santa madre Teresa di Calcutta diceva: «Se vedrete Dio nel prossimo riuscirete ad amare come Dio ama voi».

Nel Vangelo l’amore di Dio si manifesta nel suo Figlio Gesù. Egli infatti dice: «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore». Ogni cristiano è invitato a entrare in questo vortice d’amore. Dal momento che tra Padre e Figlio c’è amore condiviso e il Figlio ama noi, noi possiamo e dobbiamo sentirci coinvolti. Non solo: se il Padre ama il Figlio e il Figlio ci ama, anche noi dobbiamo amarci l’un l’altro.

Gesù inoltre dice: «Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena». Ma cosa è la gioia? La gioia nasce dall’amore, dal sentirsi amati e dall’amare a nostra volta. Senza l’amore, a che serve esistere? Senza l’amore quale sarebbe lo scopo della nostra vita?

Inoltre, annota l’evangelista, che Gesù dice: «Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore […] Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi». Gesù ha riassunto tutti i comandamenti nell’amore e ha proposto come pietra di paragone il buon samaritano, cioè uno che ama anche chi non è della sua famiglia, della sua terra, della sua razza. Uno che ama senza attendersi nulla.

Gesù aggiunge: «Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi». Ancora una volta si parla di amore e di amore di amicizia. Spesso pensiamo che l’amore di amicizia sia meno profondo e vero, meno importante. Quello che noi chiamiamo amore spesso è vestito di istinto e infatuazione. L’amicizia vera, invece, nasce spesso da un amore più raffinato e alto; genera rapporti di libertà, di rispetto, di condivisione. Ogni amore genuino dovrebbe colorarsi di amicizia per diventare più autentico e profondo, anche nel rapporto di coppia, anche in quello tra le persone di una stessa famiglia.  

«Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici». Gesù sicuramente sta pensando a se stesso, che tra breve si consegnerà alle sofferenze più atroci per dimostrare il suo amore senza misura. L’amore vero è quello che costa, non è solo qualcosa di romantico e di poetico. L’amore vero, a volte, chiede anche il sacrificio e il martirio: «Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri» (cf Gv 13,34).

Inoltre ai suoi apostoli il Maestro Divino dice: «tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda». Perché questa affermazione? Perché Dio ci ama e ci è amico. E dire di no ad un amico vero è difficile!

Il brano del Vangelo conclude con un comando di Gesù: «Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri». Ma l’amore può essere comandato? Sì. Perché esprime e arricchisce la nostra personalità. Perché l’amore è il valore più alto dal quale dipendono tutti gli altri, perché l’amore è presenza di Dio.

Il santo vescovo Agostino diceva: «Si possono avere tutti i sacramenti ed essere cattivi, ma non si può avere la carità ed essere cattivi».

Ebbene, noi possiamo attingere da questa carità, da questo amore, la forza per amare a nostra volta Dio, il prossimo, il coniuge, e per ottenere il perdono, ogni volta che abbiamo mancato di farlo. Amen.

PREGHIERA A GESÙ CROCIFISSO

O Signore, dall’alto della croce, dove ingiustamente sei stato crocifisso, hai affidato la tua santissima Madre a Giovanni e Giovanni, l’apostolo da te amato, alla tua amata Mamma.
Da quella croce hai chiesto al Padre di perdonarci: “Padre perdona loro quello che fanno”.
Su quella croce hai effuso, dal tuo fianco squarciato, sangue e acqua.
Per mezzo di quella croce il mondo è stato salvato.
Aiutaci o Signore Gesù, ad amarti sempre più e a portare ogni giorno la nostra croce.
Sostienici in questo nostro pellegrinaggio terreno e fà, o Salvatore del mondo, che per intercessione della tua santissima Madre Addolorata, impariamo a fare sempre la santa volontà del Padre nostro che è nei cieli, come tu stesso ci hai insegnato. Amen!
(Don Lucio)

Venerdì santo: Passione e morte di nostro Signore Gesù Cristo (2 aprile 2021)

Dalle sue piaghe siamo stati salvati

Oggi riflettiamo sulle sofferenze di Gesù. Subito dopo la cena pasquale, egli viene tradito e venduto da Giuda, abbandonato e rinnegato dagli apostoli. È flagellato, schernito e condannato a morte. Gesù è condannato dal potere politico, che capisce la trama che è stata ordita contro di lui e afferma: «Io non trovo in lui colpa alcuna». Nelle loro mani Gesù non è più un uomo ma, per come viene trattato, diventa una cosa.

Gesù ha voluto soffrire come noi e più di noi. Ha voluto andare fino in fondo nella sua missione e nel suo impegno di farsi uomo tra gli uomini. Maria, la sua santissima madre, condivide con il figlio la sofferenza: «Anche a te una spada trafiggerà l’anima» (cf Lc 2,35), le aveva detto il vecchio Simeone. Maria, madre di Gesù, ai piedi della croce diventa madre di noi tutti. Giovanni infatti scrive che presso la croce «Stavano sua madre, la sorella di sua madre, Maria madre di Clèopa e Maria di Màgdala. Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: “Donna, ecco tuo figlio”. Poi disse al discepolo: “Ecco tua madre!”».

Gesù, dunque, morendo, in Giovanni vede tutti noi e ci dà Maria perché sia nostra madre, nostra sorella nel cammino di fede, alla sequela di Gesù fino alla Pasqua definitiva.

Il Salvatore del mondo, inoltre, prima della crocifissione viene privato delle sue vesti. È umiliato e denudato, come qualunque malato di un ospedale, come qualunque condannato. Egli ha le mani e i piedi inchiodati alla croce. La crocifissione è una delle condanne più crudeli dell’antichità. Era riservata per legge agli schiavi, ai prigionieri di guerra e ai rivoltosi. L’imperatore Tito, dopo l’assedio di Gerusalemme, fece crocifiggere fuori della città gli sconfitti, 500 al giorno, fintanto che non ci fu più posto dove piantare le croci (così racconta lo storico Giuseppe Flavio). Soltanto con Costantino, nel 341, la crocifissione venne ufficialmente abolita. E Gesù ha voluto condividere questa pena. Non ci resta che adorare, di fronte a lui che soffre e perdona.

Prima di morire, Gesù ha sete: «Vi era lì un vaso pieno di aceto; posero perciò una spugna, imbevuta di aceto, in cima a una canna e gliela accostarono alla bocca. Dopo aver preso l’aceto, Gesù disse: «È compiuto!». E, chinato il capo, consegnò lo spirito». Subito dopo la morte i soldati, annota l’evangelista: «Venuti da Gesù, vedendo che era già morto, non gli spezzarono le gambe, ma uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua». Quel sangue e quell’acqua sono il simbolo del battesimo e dell’Eucaristia.

Il Redentore del mondo è morto e viene deposto in grembo a Maria, come quando era bambino. Tutto sembra finito!

Con la sepoltura, Gesù, come ogni uomo che muore, è nella pace. Ma qualcosa è già nell’aria. Le sue parole che ha detto più volte sono state chiare: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere» (cf Gv 2,19). Ben presto il cielo si riaprirà per sempre! È la gioia della Pasqua che nasce dalla sofferenza. Perché sempre la gioia nasce da una vita donata.

Camminiamo con Maria, la vergine addolorata, aiutati dal suo esempio e dalla sua preghiera, dietro al Signore Gesù, conservando gelosamente nel cuore i suoi gesti e le sue parole e aspettando il loro compimento.

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