Commento al Vangelo della III Domenica di Pasqua Anno C (1° maggio 2022)

È il Signore!

In questa 3ª domenica di Pasqua l’evangelista Giovanni ci presenta un gruppo di apostoli incompleto, solo 7 su 11: «Si trovavano insieme Simon Pietro, Tommaso detto Didimo, Natanaèle di Cana di Galilea, i figli di Zebedeo e altri due discepoli». Pietro è il leader, che decide di andare a pescare da solo: «Io vado a pescare», ma gli altri lo seguono: «Veniamo anche noi con te». L’evangelista prosegue scrivendo che: «quella notte non presero nulla». Perché la pesca è vana? Perché Gesù aveva detto: «Senza di me non potete far nulla» (cf Gv 15, 5). Ciò significa che non basta che sia Pietro a guidare la pesca, occorre che ci sia anche il Signore. Non è Pietro, dunque, che salva ma Cristo che salva tutti coloro che si fidano e si affidano a lui.

Quindi, dopo una notte di inutile fatica, all’alba Egli si accosta al piccolo gruppo di pescatori e ribalta la loro deludente situazione. I discepoli non sanno riconoscerlo, poiché sono ancora avvolti dalle tenebre dell’incredulità. Nonostante ciò accolgono l’invito di Gesù il quale dice: «Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete». Il risultato della loro pronta obbedienza è che «non riuscivano più a tirarla su per la grande quantità di pesci». È allora che il discepolo amato grida: «È il Signore!». Udita questa confessione di fede sgorgata da un cuore che ama, Pietro si sente pervaso di vergogna, e, stringendosi «la veste attorno ai fianchi, perché era svestito, si gettò in mare», mentre gli altri raggiungono la riva sulla barca. Giovanni scrive che: «Appena scesi a terra, videro un fuoco di brace con del pesce sopra, e del pane». Gesù, prosegue l’evangelista, disse loro: «Portate un po’ del pesce che avete preso ora». Giovanni, scrutando in profondità l’episodio della pesca miracolosa, annota un particolare: «la rete era piena di centocinquantatré grossi pesci». Il numero centocinquantatré, nel mondo greco-romano, era il totale di tutte le specie di pesci allora ritenute esistenti. Giovanni, dunque, ci ricorda che la Chiesa è chiamata a raccogliere tutti i popoli nella fede, usando soltanto la forza dell’umiltà e dell’obbedienza alla parola del Risorto. Il nostro apostolato deve confrontarsi continuamente con questo insegnamento. Chiediamoci allora: siamo sempre obbedienti e docili alla parola del Signore? Il nostro apostolato lo svolgiamo con umiltà o con superbia?

Al termine del pasto in cui il Signore Gesù si è fatto nuovamente servo dei suoi discepoli, egli si rivolge a Pietro chiamandolo con il nome che questi aveva prima della vocazione. E lo fa ponendogli una precisa domanda: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?». Il Risorto non lo sta rimproverando, ma gli sta dando la possibilità di riscattare il triplice rinnegamento, perché non rimanga nessun residuo di senso di colpa. Per tre volte, infatti, Pietro aveva negato di conoscere Gesù, e ora per tre volte il Signore lo interroga, al punto che Pietro, addolorato per questa insistenza, gli risponde: «Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene». Gesù allora lo riabilita, chiamandolo per tre volte a essere pastore delle sue pecore: «Pasci le mie pecore». Il rinnegamento, dunque, è avvolto dalla misericordia, e Simone torna a essere Pietro, la Roccia della Chiesa.

La storia dei Papi, che sono i successori dell’umile pescatore di Galilea, va letta sempre alla luce di questo illuminante episodio e di queste decisive parole di Gesù. Il Signore, mentre conferma Pietro nel primato, gli ricorda con quale spirito deve esercitare l’autorità nella Chiesa. Comandare significa amare e servire, per questo Pietro è il «servo dei servi di Dio» e noi dobbiamo amarlo per questo e dobbiamo aiutarlo ad amare sempre di più, affinché il suo servizio, voluto da Gesù, sia luce per la Chiesa e per il mondo.

Infine il Risorto rivela a Pietro il futuro che lo attende: «Quando eri più giovane ti vestivi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi». Ebbene sì, Pietro glorificherà Dio accettando di essere condotto là dove non avrebbe voluto: al martirio, quando verserà il sangue per attestare la sua fedeltà a Cristo. E così risuona per lui ancora una volta la chiamata originaria del Signore: «Seguimi».

Chiediamo a Dio Padre misericordioso, affinché accresca in noi la luce della fede per poter proclamare davanti a tutti che Gesù, il Risorto, è il Signore.

Commento al Vangelo della V Domenica del Tempo Ordinario Anno C (6 febbraio 2022)

Eccomi, manda me!

La parola del Signore che ci viene offerta nelle tre letture di questa quinta domenica del tempo ordinario ci presenta tre vicende che gli studiosi chiamano: racconti di vocazione, ossia chiamata.

La prima lettura è il racconto della vocazione di Isaia. La chiamata di Isaia, vissuto nell’ 8° secolo avanti Cristo, viene descritta in modo solenne e mette in evidenza la santità di Dio, dinanzi al quale ogni persona è «dalle labbra impure» e ha bisogno di essere purificata col «carbone ardente preso dall’ altare», per sentirsi ripetere: «Ecco, questo ha toccato le tue labbra, perciò è scomparsa la tua colpa e il tuo peccato è espiato». Anche Pietro, ci dice l’evangelista Luca, dinanzi alla potenza di Gesù nella pesca prodigiosa, esclama: «Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore». Dinanzi a Cristo che si è rivelato anche a lui Paolo, nella prima lettera ai Corinzi, dichiara: «Io infatti sono il più piccolo tra gli apostoli e non sono degno di essere chiamato apostolo perché ho perseguitato la Chiesa di Dio».

Di fronte al Signore che fa irruzione nella nostra vita, che ci sceglie, che ci chiama, che ci invia per una missione, non possiamo non sentire la nostra pochezza, i nostri limiti, i nostri peccati. Questa constatazione non ci impedisce di rispondere come Isaia: «Eccomi, manda me!», oppure ripetere il gesto dei discepoli, che lasciarono tutto e seguirono Gesù.

Per compiere la missione alla quale il Signore ci destina è necessaria la nostra risposta di persone libere e consapevoli, ma l’iniziativa è sempre di Dio, che appare a Isaia, che ferma Saulo sulla via di Damasco, che dice a Simone: «Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca». È la parola di Dio fatta carne in Cristo che chiama e, mentre chiama, trasforma e rende capaci di dare una risposta generosa e incondizionata. Alla richiesta che appare insensata – Simone e i suoi compagni hanno faticato tutta la notte senza pescare nulla e per di più sanno bene che si pesca poco in pieno giorno – Pietro mette da parte le sue certezze e risponde senza indugio: «sulla tua parola getterò le reti». È un’affermazione straordinaria, che esprime l’essenziale della fede cristiana: un’adesione fiduciosa e profonda a Gesù, un’obbedienza alla sua parola. È la parola di Gesù che trasforma i pescatori del lago di Cafarnao in pescatori di uomini. Luca annota dicendo che Gesù disse a Simone: «Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini». Pietro da pescatore di pesci deve diventare pescatore di persone, capace cioè di condurre uomini e donne al Signore. E questa promessa gli viene rivolta proprio mentre egli confessa la propria inadeguatezza, a riprova di come solo grazie all’ adesione al Signore egli potrà scacciare ogni paura e compiere ciò che alle sue forze sarebbe impossibile.

Il racconto evangelico si conclude con un’annotazione che, nella sua brevità, può riassumere il senso di un’intera vita: i tre pescatori «tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono». Quegli uomini che dicono «» a Gesù e lo seguono rinunciano al loro lavoro, abbandonano la famiglia e la casa. Il loro «sì» comporta delle rinunce che Pietro, Giacomo e Giovanni – e tutti coloro che dicono «sì» al Signore – hanno vissuto con gioia perché hanno accettato liberamente di non anteporre nulla all’ amore di Cristo, hanno deciso di «stare con lui» (cfr (Mc 3, 14) nella certezza che «il suo amore vale più della vita» (cfr Sal 63, 4).

Ci sono dei momenti nella nostra vita in cui Dio si rivela anche a noi, ci chiama a seguirlo, non in modo spettacolare ma nei modi più diversi. Tutti, dunque, siamo chiamati a seguire il Signore. Sta a noi riconoscere la sua voce, discernere i segni della sua volontà. È nell’ ascolto della sua Parola, nella contemplazione, nella preghiera, che ci rendiamo pronti e disponibili ad accogliere la sua chiamata, che non è riservata a pochi eletti – la vocazione non è riservata ai soli sacerdoti, ai religiosi e alle religiose -, ma è rivolta a tutti, anche se per missioni e servizi diversi. Dio chiama per affidare un compito, per coinvolgerci nel suo progetto di salvezza. La risposta dei profeti e degli apostoli a volte è immediata, gioiosa, altre volte è titubante, perplessa, ma tutti, alla fine, dicono il loro «eccomi».

Come ci comportiamo noi di fronte alla scelta e alla chiamata del Signore che ci vuole impegnati nel suo servizio e nel servizio ai fratelli, sia nella comunità ecclesiale che in quella civile? Sappiamo fidarci veramente della parola del Signore? Oppure ci lasciamo scoraggiare dai nostri fallimenti? Siamo pronti a seguirlo?

Ci aiuti la Vergine Maria a rispondere generosamente alla chiamata del Signore e a comprendere sempre più che essere discepoli significa mettere i nostri piedi sulle orme lasciate dal Maestro: sono le orme della grazia divina che rigenera vita per tutti.

Commento al Vangelo della XVII Domenica del Tempo Ordinario Anno A (26 luglio 2020)

Il vero tesoro è Cristo

Siamo giunti all’ultima parte del discorso con cui Gesù rivolge alla folla e ai discepoli l’annuncio del regno dei cieli: oggi ascoltiamo le parabole del tesoro e della perla, assai simili tra loro, e quella della rete gettata nel mare.

Nelle prime due parabole ci sono due figure diverse in scena, un uomo e un mercante: sono loro ad agire, eppure non sono i protagonisti del racconto. I veri protagonisti sono il tesoro e la perla, che con la loro sola presenza causano le azioni di due uomini. Un uomo, scrive l’evangelista, trova un tesoro in un campo non suo; allora con molta sapienza «lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo». Il mercante, che è in cerca di perle preziose, quando ne trova una «di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra». È da notare – e questo è decisivo – che entrambi vendono tutto quello che possiedono per potersi impadronire del tesoro e della perla. In loro non c’è nessun rimpianto, non fanno un sacrificio, bensì un affare!

Ciò che accade a queste due persone accade a tanti altri uomini e donne. Pensiamo ai discepoli di Gesù i quali, chiamati da lui, hanno abbandonato tutto e lo hanno seguito (cf Lc 5,11; Mt 4,20.22); pensiamo a san Francesco d’Assisi: egli si fece povero e rinunciò gioiosamente alle ricchezze paterne, perché aveva trovato la «ricchezza vera». San Francesco aveva cercato con tutta l’anima la «perla preziosa» e inizialmente aveva creduto che la fama e gli onori fossero il tesoro della vita; facendo esperienza di varie disillusioni, Francesco finalmente capisce che la perla preziosa è Gesù Cristo: allora con una decisione stupefacente ma pienamente logica, abbandona tutto e segue Gesù Cristo e diventa l’uomo della letizia e della pace.

La sequela di Gesù, dunque, esige un pronto e radicale distacco. Chi segue lui non dice: «Ho lasciato», ma: «Ho trovato un tesoro» perché la perla preziosa e il tesoro è Gesù Cristo: come dice Paolo, «Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura, per guadagnare Cristo» (cf Fil 3,8).

Noi, purtroppo, molto spesso consideriamo la religione come un peso; riduciamo la fede a una serie di divieti; abbiamo di Dio più l’idea del padrone che del Padre. Se il cristiano cronometra i minuti che dedica alla preghiera, vuol dire che ancora non ha capito che il tesoro della sua vita è Dio. Dio non si trova per la strada; Dio non è una banalità sulla quale si possa inciampare casualmente. Se si vuole incontrare Dio, bisogna cercarlo con lo stesso ardore con cui «la cerva anela ai corsi d’acqua» (cf Sal 42); se si vuole vedere Dio, bisogna desiderarlo con la stessa nostalgia con cui «le sentinelle attendono le luci dell’aurora» (cf Sal 130). Per arrivare a sentire il fascino potente del «tesoro» o della «perla preziosa» (che è Dio), è necessario prima averne avvertito la radicale povertà e fragilità della condizione umana: chi è pieno di sé o ricco di inutile ciarpame, certamente non si mette a cercare Dio. Pensiamo al giovane ricco, che all’invito di Gesù: «va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; e vieni! Seguimi!», non ha avuto il coraggio di fare questo, e dunque «se ne andò, triste; possedeva infatti molte ricchezze» (cf Mt 19, 21-22).

Ed infine Gesù paragona il regno dei cieli «a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci». Come accanto al grano cresce la zizzania (cf Mt 13, 24-30), così vengono pescati pesci buoni e pesci cattivi. Ciò significa che la comunità cristiana è composta di santi e di peccatori, di buoni e di cattivi, di persone impegnate al servizio del vangelo e di persone disimpegnate. Quando però la rete è tirata a riva, i primi sono raccolti nei canestri, gli altri sono gettati via. Così, dice Gesù, «sarà alla fine del mondo. Verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti». Ancora una volta egli ci ammonisce sul fatto che questa separazione avverrà solo nel giorno del giudizio, e spetterà a Dio e a nessun altro: se al presente il Padre «fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» (cf Mt 5, 45), poiché è paziente e misericordioso e non vuole che alcuno perisca ma piuttosto si converta (cf 2Pt 3,9), chi siamo noi per ergerci a giudici degli altri? Finché siamo in tempo dovremmo piuttosto pensare a convertirci per accogliere il Regno che viene, ricordando le parole di sant’Agostino: «Nell’ultimo giorno molti che si ritenevano dentro si scopriranno fuori, mentre molti che pensavano di essere fuori saranno trovati dentro».

A conclusione del suo lungo discorso Gesù afferma, rivolto ai suoi discepoli: «ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche». Con queste parole ci affida la grande responsabilità di interpretare il tesoro delle Sante Scritture alla luce del Regno vissuto e annunciato da lui. Nella prima lettura, infatti, abbiamo ascoltato come Salomone chieda a Dio non ricchezza né successo, ma la sapienza, la capacità di distinguere il bene dal male, ciò che vale e ciò che non ha importanza. Di questo spirito di discernimento tutti abbiamo estremo bisogno, specialmente in un periodo storico così confuso e così travagliato.

Che il Signore Gesù, in cui «sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della conoscenza» (cf Col 2,3), ci dia la luce e la forza di distinguere il bene dal male e ci aiuti ad amarlo sempre più.

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