Commento al Vangelo della V Domenica del Tempo Ordinario Anno B (4 febbraio 2024)

Abbiamo sempre fiducia in Cristo che è medico dei corpi e delle anime!

Nel Vangelo di questa V Domenica del tempo ordinario, abbiamo ascoltato che «Gesù, uscito dalla sinagoga, subito andò nella casa di Simone e Andrea, in compagnia di Giacomo e Giovanni», e trova ammalata con febbre la suocera di Pietro; la prende per mano, la solleva e la donna è guarita e si mette a servire. In questo episodio appare simbolicamente tutta la missione di Gesù. Gesù venendo dal Padre si reca nella casa dell’umanità, sulla nostra terra e trova un’umanità ammalata, ammalata di febbre, di quella febbre che sono le ideologie, le idolatrie, la dimenticanza di Dio. Il Signore ci dà la sua mano, ci solleva e ci guarisce. E lo fa in tutti i secoli; ci prende per mano con la sua parola, e così dissipa le nebbie delle ideologie, delle idolatrie. Prende la nostra mano nei sacramenti, ci risana dalla febbre delle nostre passioni e dei nostri peccati mediante l’assoluzione nel sacramento della riconciliazione. Ci dà la capacità di alzarci, di stare in piedi davanti a Dio e davanti agli uomini. E proprio con questo contenuto della liturgia domenicale il Signore si incontra con noi, ci prende per mano, ci solleva e ci sana sempre di nuovo con il dono della sua parola, il dono di se stesso.

Ma anche la seconda parte di questo episodio è importante, questa donna appena guarita si mette a servirli, dice il Vangelo. Subito comincia a lavorare, ad essere a disposizione degli altri, e così diventa rappresentanza di tante buone donne, madri, nonne, donne nelle diverse professioni, che sono disponibili, si alzano e servono, e sono anima della famiglia.

Ebbene, la giornata di Gesù a Cafarnao incomincia con la guarigione della suocera di Pietro e termina con la scena della gente di tutta la cittadina che si accalca davanti alla casa dove Lui alloggiava, per portargli tutti i malati. La folla, segnata da sofferenze fisiche e da miserie spirituali, costituisce, per così dire, “l’ambiente vitale” in cui si attua la missione di Gesù, fatta di parole e di gesti che risanano e consolano. Gesù non fa la predica da accademico, staccato dalla gente: è in mezzo alla folla! In mezzo al popolo! La maggior parte della vita pubblica di Gesù è passata sulla strada, fra la gente, per predicare il Vangelo, per guarire le ferite fisiche e spirituali.  È una umanità solcata da sofferenze, questa folla, di cui il Vangelo parla molte volte. È un’umanità solcata da fatiche e problemi: a tale povera umanità è diretta l’azione potente, liberatrice e rinnovatrice di Gesù. Così, in mezzo alla folla fino a tarda sera, si conclude quel sabato. E che cosa fa dopo, Gesù?

L’autore sacro scrive che «al mattino presto [Gesù] si alzò quando ancora era buio e, uscito, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava». E qui appare il vero centro del mistero di Gesù. Gesù sta in colloquio con il Padre ed eleva la sua anima umana nella comunione con la persona del Figlio, così che l’umanità del Figlio, unita a Lui, parla nel dialogo trinitario col Padre; e così rende possibile anche a noi la vera preghiera. Nella liturgia Gesù prega con noi, noi preghiamo con Gesù e così noi entriamo in contatto reale con Dio, entriamo nel mistero dell’eterno amore della Santissima Trinità.

Gesù parla con il Padre, questa è la fonte ed il centro di tutte le attività di Gesù; vediamo la sua predicazione, le guarigioni, i miracoli e infine la passione, escono da questo centro, dal suo essere col Padre. E così questo Vangelo ci insegna il centro della fede e della nostra vita cioè il primato di Dio. Dove Dio non c’è, anche l’uomo non è più rispettato. Solo se lo splendore di Dio rifulge sul volto dell’uomo, l’uomo immagine di Dio è protetto da una dignità che poi da nessuno deve essere violata.

Nella conclusione del brano odierno, l’evangelista annota che gli apostoli dicono a Gesù: «Tutti ti cercano! Egli disse loro: “Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto”». Gesù, dunque, dice: no, perché deve andare negli altri paesi per annunciare Dio e per scacciare via i demoni, le forze del male; per questo Lui è venuto. Gesù è venuto non per portare le comodità della vita, ma per portare la condizione fondamentale della nostra dignità, per portarci l’annuncio di Dio, la presenza di Dio e così vincere le forze del male. Questa priorità egli indica con grande chiarezza: non sono venuto per guarire – anche questo faccio, ma come segno – sono venuto per riconciliarvi con Dio. Dio è il nostro creatore, Dio ci ha dato la vita, la nostra dignità: E a lui dobbiamo soprattutto rivolgerci.

Che la Vergine Maria ci insegni a condividere con i fratelli il mistero del dolore, ci aiuti ad avere sempre fiducia in Dio e ci sostenga affinché possiamo recare a tutti la parola risanatrice di Gesù, medico delle anime e dei corpi. Amen!

 

Commento al Vangelo della solennità dell’Epifania Anno B (6 gennaio 2024)

Prostratisi lo adorarono!

San Matteo nel suo Vangelo scrive: «Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono». Il cammino esteriore di quegli uomini era finito. Erano giunti alla meta. Ma a questo punto per loro comincia un nuovo cammino, un pellegrinaggio interiore che cambia tutta la loro vita. Poiché sicuramente avevano immaginato questo Re neonato in modo diverso. Si erano appunto fermati a Gerusalemme per raccogliere presso il Re locale notizie sul promesso Re che era nato. Sapevano che il mondo era in disordine, e per questo il loro cuore era inquieto. Erano certi che Dio esisteva e che era un Dio giusto e benigno. E forse avevano anche sentito parlare delle grandi profezie in cui i profeti d’Israele annunciavano un Re che sarebbe stato in intima armonia con Dio, e che a nome e per conto di Lui avrebbe ristabilito il mondo nel suo ordine. Per cercare questo Re si erano messi in cammino: dal profondo del loro intimo erano alla ricerca del diritto, della giustizia che doveva venire da Dio, e volevano servire quel Re, prostrarsi ai suoi piedi e così servire essi stessi al rinnovamento del mondo. Appartenevano a quel genere di persone «che hanno fame e sete della giustizia» (cf Mt 5,6). Questa fame e questa sete avevano seguito nel loro pellegrinaggio – si erano fatti pellegrini in cerca della giustizia che aspettavano da Dio, per potersi mettere al servizio di essa.

Anche se gli altri uomini, quelli rimasti a casa, li ritenevano forse utopisti e sognatori – essi invece erano persone con i piedi sulla terra, e sapevano che per cambiare il mondo bisogna disporre del potere. Per questo non potevano cercare il bambino della promessa se non nel palazzo del Re. Ora però s’inchinano davanti a un bimbo di povera gente, e ben presto vengono a sapere che Erode – quel Re dal quale si erano recati – con il suo potere intendeva insidiarlo, così che alla famiglia non sarebbe restata che la fuga e l’esilio. Il nuovo Re, davanti al quale si erano prostrati in adorazione, si differenziava molto dalla loro attesa. Così dovevano imparare che Dio è diverso da come noi di solito lo immaginiamo. Qui cominciò il loro cammino interiore. Cominciò nello stesso momento in cui si prostrarono davanti a questo bambino e lo riconobbero come il Re promesso. Ma questi gesti gioiosi essi dovevano ancora raggiungerli interiormente.

Dovevano cambiare la loro idea sul potere, su Dio e sull’uomo e, facendo questo, dovevano anche cambiare se stessi. Ora vedevano: il potere di Dio è diverso dal potere dei potenti del mondo. Il modo di agire di Dio è diverso da come noi lo immaginiamo e da come vorremmo imporlo anche a Lui. Dio in questo mondo non entra in concorrenza con le forme terrene del potere. Non contrappone le sue divisioni ad altre divisioni. A Gesù, nell’Orto degli ulivi, Dio non manda dodici legioni di angeli per aiutarlo (cf Mt 26,53). Egli contrappone al potere rumoroso e prepotente di questo mondo il potere inerme dell’amore, che sulla Croce – e poi sempre di nuovo nel corso della storia – soccombe, e tuttavia costituisce la cosa nuova, divina, che poi si oppone all’ingiustizia e instaura il Regno di Dio. Dio è diverso – è questo che ora riconoscono. E ciò significa che ora essi stessi devono diventare diversi, devono imparare lo stile di Dio.

Erano venuti per mettersi a servizio di questo Re, per modellare la loro regalità sulla sua. Era questo il significato del loro gesto di ossequio, della loro adorazione. Di essa facevano parte anche i regali – oroincenso e mirra – doni che si offrivano a un Re ritenuto divino. L’adorazione ha un contenuto e comporta anche un dono. Volendo con il gesto dell’adorazione riconoscere questo bambino come il loro Re al cui servizio intendevano mettere il proprio potere e le proprie possibilità, gli uomini provenienti dall’Oriente seguivano senz’altro la traccia giusta. Servendo e seguendo Lui, volevano insieme con Lui servire la causa della giustizia e del bene nel mondo. E in questo avevano ragione. Ora però imparano che ciò non può essere realizzato semplicemente per mezzo di comandi e dall’alto di un trono. Ora imparano che devono donare se stessi – un dono minore di questo non basta per questo Re. Ora imparano che la loro vita deve conformarsi a questo modo divino di esercitare il potere, a questo modo d’essere di Dio stesso. Devono diventare uomini della verità, del diritto, della bontà, del perdono, della misericordia. Non domanderanno più: Questo a che cosa mi serve? Dovranno invece domandare: Con che cosa servo io la presenza di Dio nel mondo? Devono imparare a perdere se stessi e proprio così a trovare se stessi. Andando via da Gerusalemme, devono rimanere sulle orme del vero Re, al seguito di Gesù.

Ebbene, domandiamoci che cosa tutto questo significhi per noi. Poiché quello che abbiamo appena detto sulla natura diversa di Dio, che deve orientare la nostra vita, suona bello, ma resta piuttosto sfumato e vago. Per questo Dio ci ha donato degli esempi. I Magi provenienti dall’Oriente sono soltanto i primi di una lunga processione di uomini e donne che nella loro vita hanno costantemente cercato con lo sguardo la stella di Dio, che hanno cercato quel Dio che a noi, esseri umani, è vicino e ci indica la strada. È la grande schiera dei santi – noti o sconosciuti – mediante i quali il Signore, lungo la storia, ha aperto davanti a noi il Vangelo e ne ha sfogliato le pagine; questo, Egli sta facendo tuttora. Nelle loro vite, come in un grande libro illustrato, si svela la ricchezza del Vangelo. Essi sono la scia luminosa di Dio che Egli stesso lungo la storia ha tracciato e traccia ancora. I beati e i santi sono stati persone che non hanno cercato ostinatamente la propria felicità, ma semplicemente hanno voluto donarsi, perché sono state raggiunte dalla luce di Cristo. Essi ci indicano così la strada per diventare felici, ci mostrano come si riesce ad essere persone veramente umane. Nelle vicende della storia sono stati essi i veri riformatori che tante volte l’hanno risollevata dalle valli oscure nelle quali è sempre nuovamente in pericolo di sprofondare; essi l’hanno sempre nuovamente illuminata quanto era necessario per dare la possibilità di accettare – magari nel dolore – la parola pronunciata da Dio al termine dell’opera della creazione: «È cosa buona». Basta pensare a figure come San Benedetto, San Francesco d’Assisi, Santa Teresa d’Avila, Sant’Ignazio di Loyola, San Carlo Borromeo, ai fondatori degli Ordini religiosi dell’Ottocento che hanno animato e orientato il movimento sociale, o ai santi del nostro tempo – Massimiliano Kolbe, Edith Stein, Madre Teresa, Padre Pio. Contemplando queste figure impariamo che cosa significa «adorare», e che cosa vuol dire vivere secondo la misura del bambino di Betlemme, secondo la misura di Gesù Cristo e di Dio stesso.

I santi, abbiamo detto, sono i veri riformatori. Ora vorrei esprimerlo in modo ancora più radicale: Solo dai santi, solo da Dio viene la vera rivoluzione, il cambiamento decisivo del mondo. Nel secolo appena passato abbiamo vissuto le rivoluzioni, il cui programma comune era di non attendere più l’intervento di Dio, ma di prendere totalmente nelle proprie mani il destino del mondo. E abbiamo visto che, con ciò, sempre un punto di vista umano e parziale veniva preso come misura assoluta d’orientamento. L’assolutizzazione di ciò che non è assoluto ma relativo si chiama totalitarismo. Non libera l’uomo, ma gli toglie la sua dignità e lo schiavizza. Non sono le ideologie che salvano il mondo, ma soltanto il volgersi al Dio vivente, che è il nostro creatore, il garante della nostra libertà, il garante di ciò che è veramente buono e vero. La rivoluzione vera consiste unicamente nel volgersi senza riserve a Dio che è la misura di ciò che è giusto e allo stesso tempo è l’amore eterno. E che cosa mai potrebbe salvarci se non l’amore?

Sono molti coloro che parlano di Dio; nel nome di Dio si predica anche l’odio e si esercita la violenza. Perciò è importante scoprire il vero volto di Dio. I Magi dell’Oriente l’hanno trovato, quando si sono prostrati davanti al bambino di Betlemme. In Gesù Cristo, che per noi ha permesso che si trafiggesse il suo cuore, in Lui è comparso il vero volto di Dio. Lo seguiremo insieme con la grande schiera di coloro che ci hanno preceduto. Allora cammineremo sulla via giusta.

Questo significa che non ci costruiamo un Dio privato, non ci costruiamo un Gesù privato, ma che crediamo e ci prostriamo davanti a quel Gesù che ci viene mostrato dalle Sacre Scritture e che nella grande processione dei fedeli chiamata Chiesa si rivela vivente, sempre con noi e al tempo stesso sempre davanti a noi. Si può criticare molto la Chiesa. Noi lo sappiamo, e il Signore stesso ce l’ha detto: essa è una rete con dei pesci buoni e dei pesci cattivi, un campo con il grano e la zizzania. In fondo, è consolante il fatto che esista la zizzania nella Chiesa. Così, con tutti i nostri difetti possiamo tuttavia sperare di trovarci ancora nella sequela di Gesù, che ha chiamato proprio i peccatori. La Chiesa è come una famiglia umana, ma è anche allo stesso tempo la grande famiglia di Dio, mediante la quale Egli forma uno spazio di comunione e di unità attraverso tutti i continenti, le culture e le nazioni. Perciò siamo lieti di appartenere a questa grande famiglia che vediamo qui; siamo lieti di avere fratelli e amici in tutto il mondo.

«Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono». Ebbene sì. Questa non è una storia lontana, avvenuta tanto tempo fa. Questa è presenza. Qui nell’Ostia sacra Egli è davanti a noi e in mezzo a noi. Come allora, si vela misteriosamente in un santo silenzio e, come allora, proprio così svela il vero volto di Dio. Egli per noi si è fatto chicco di grano che cade in terra e muore e porta frutto fino alla fine del mondo (cf Gv 12,24). Egli è presente come allora in Betlemme. Ci invita a quel pellegrinaggio interiore che si chiama adorazione. Chiediamo prostrati al Re dei re, per intercessione della sua Santissima Madre, di guidarci nel nostro pellegrinaggio terreno. Amen!

  

Commento al Vangelo della XXXI Domenica del Tempo Ordinario Anno C (30 ottobre 2022)

Il Figlio dell’uomo è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto!

Siamo ormai al termine del viaggio di Gesù a Gerusalemme e, prima di arrivare nella Città santa, il Maestro attraversa Gerico: qui abita un uomo di nome Zaccheo, che si è arricchito in modo disonesto grazie al suo mestiere di capo dei pubblicani. Questo peccatore pubblico ha nel cuore un profondo desiderio di conoscere Gesù, come mostra il suo comportamento e, senza paura di essere ridicolizzato, poiché è di bassa statura, sale su un albero di sicomoro per poter superare l’ostacolo della folla e scorgerlo mentre passa.

Ed ecco, scrive l’evangelista, che «Gesù, quando giunse sul luogo, alzò lo sguardo e gli disse: “Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua”». Zaccheo, meravigliato che Gesù possa incontrare lui, un pubblico peccatore, «scese in fretta e lo accolse pieno di gioia». Facciamo attenzione a quel «in fretta». Le chiamate del Signore non ammettono indugi, ritardi. Si deve rispondere prontamente e con gioia alla chiamata di Gesù come ha fatto Zaccheo, come fece Matteo (cf Lc 5, 27-32). Noi, purtroppo, molto spesso, non accogliamo l’invito di Gesù e ci comportiamo come quel notabile ricco, che: «udite queste parole, divenne assai triste perché era molto ricco» (cf Lc 18, 23).

Gesù, dunque, va a casa di quest’uomo e, coloro che non sopportavano che egli si rivolgesse ai peccatori manifesti, lo condannano. Luca, infatti, scrive: «vedendo ciò, tutti mormoravano: “È entrato in casa di un peccatore!”». Anche noi, spesso, condanniamo le persone giudicandole e mormorandole. Ma chi siamo noi per giudicare? Noi guardiamo la pagliuzza che è nell’occhio del nostro fratello e non vediamo la trave che è nel nostro occhio (cf Lc 6, 41). Impariamo e sforziamoci a non giudicare «perché il giudizio appartiene a Dio» (cf Dt 1, 17). Dio ama ciascuno di noi perché siamo suoi figli. Il brano della Sapienza, nella prima lettura, ci ricorda questo amore di Dio che «ha compassione di tutti», perché egli è «amante della vita».

Zaccheo si sente amato, cambiato, a lui non interessa ciò che la gente dice. Infatti, annota l’evangelista, che «alzatosi, disse al Signore: “Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto”». Zaccheo mostra che l’incontro con Gesù ha causato in lui la conversione: si impegna, infatti, a compiere un gesto concretissimo che riguarda proprio le sue ricchezze, per le quali si era smarrito nel peccato! Tutto ciò a cui aveva dato importanza fino ad allora perde di significato, non può più essere inteso come valore, né tanto meno come scopo della sua vita. Ecco allora la sua decisione di condividere con i poveri i propri beni e di risarcire le persone frodate, al di là delle prescrizioni della legge.

Gesù commenta queste parole con un’affermazione straordinaria: «Oggi per questa casa è venuta la salvezza, perché anch’egli è figlio di Abramo». Egli sa vedere un uomo e un figlio di Abramo dove gli altri vedono solo un peccatore, e a quest’uomo offre la salvezza che coinvolge non soltanto lui, ma tutta la sua casa. Gesù, quindi, ci ricorda la sua missione fondamentale, prima di andare incontro alla morte: «Il Figlio dell’uomo è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto».

Come è entrata quel giorno nella casa di Zaccheo, così la salvezza portata dal Signore può entrare ogni giorno nelle nostre case. Per accoglierla dobbiamo confessare con cuore sincero: «Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, il primo dei quali sono io» (cf 1Tm 1, 15).

L’uomo con il cappello

C’era una bambina povera che aveva perso i suoi genitori durante la guerra e non aveva nessuno. Viveva in mezzo alla strada, tra i barboni e i cani randagi, ma aveva una capacità che era il saper disegnare.
Mostrava i suoi disegni ai grandi maestri ma loro non se ne curavano e la piccola era triste e piangeva perché i grandi non la capivano.

Un giorno, mentre stava sul marciapiede a piangere, un uomo con un cappello in testa si avvicinó e le chiese di fargli vedere i disegni.
La bambina, guardandolo attentamente con gli occhi pieni di lacrime, rispose che non era impontante ciò che aveva disegnato, ma l’uomo insistette nel voler vedere i disegni e la bambina glieli fece vedere. L’uomo, nel vedere nei disegni tanta creatività, fu sorpreso e le disse:

– Bambina, questi disegni sono favolosi! Mi vuoi dare la spiegazione di cosa essi rappresentano?

La bambina, allora, diventò triste e disse che i disegni rappresentavano i suoi genitori che l’avevano amata ma, purtroppo, essendo morti, al mondo non c’era più nessuno che l’avrebbe amata e che si sarebbe preso cura di lei.

L’uomo, nel sentire queste strazianti parole, le disse che quei disegni erano stupendi e stupenda era la spiegazione e, con cuore commosso, propose alla piccola orfana non solo di andare a vivere nella sua sua casa ma le propose anche di fare un corso di storia della pittura.

La piccola bambina era felice della proposta che le fu fatta dall’uomo con il cappello, però rispose che non aveva soldi per intraprendere la carriera artistica.

L’uomo, allora, le disse che avrebbe pagato lui la sua carriera artistica e la bambina accettó e diventò la più grande artista dell’Italia.

Morale: A volte abbiamo paura di esprimere il proprio talento ma c’è qualcuno che ci infonde tanto coraggio nel portare avanti il nostro talento.

Commento al Vangelo della XXIV Domenica del Tempo Ordinario Anno C (11 settembre 2022)

Il Padre misericordioso!

Ascoltiamo oggi il capitolo quindicesimo del vangelo di Luca, in cui Gesù narra le tre parabole della misericordia di Dio: quella della pecora perduta e ritrovata; quella della moneta perduta e ritrovata; quella del figlio perduto e ritrovato, la cosiddetta parabola del «figliol prodigo» o, meglio, del «Padre misericordioso».

Perché Gesù ha raccontato queste tre parabole? L’evangelista scrive che «si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: “Costui accoglie i peccatori e mangia con loro”». Gesù, allora, racconta le parabole per rispondere alle mormorazioni degli scribi e dei farisei, scandalizzati dal fatto che egli accoglie pubblicani e peccatori.

La prima parabola presenta Dio come un pastore che «ha cento pecore» e, perdendone una, «lascia le novantanove e va in cerca di quella perduta, finché non la trova». La seconda parabola presenta Dio nell’immagine di una donna che «ha dieci monete» e, perdendone una, «accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova». In ambedue le parabole notiamo che Gesù dice che sia quando è stata ritrovata la pecora, sia quando è stata ritrovata la moneta, vi è grande gioia: «Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta. Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduto».

La terza parabola, invece, è il vertice del vangelo. Sembra quasi che Gesù voglia dire: “Volete capire sì o no che Dio è Amore, Pazienza, Bontà, Misericordia senza confini?”.

E inizia il racconto dicendo: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”». Il più giovane, avendo voluto in anticipo la parte di patrimonio che gli spettava, ha commesso un gesto di arroganza e di disprezzo verso il padre. Chiedendo l’eredità prima del tempo è come se avesse detto: “Tu non conti niente per me, è come se fossi già morto. A me interessa solo il tuo denaro. Dammelo!”. E il padre si piega alla libertà e richiesta del figlio: non lo contrasta, perché l’amore non si può imporre ma soltanto proporre. Il cuore del padre, ovviamente, è triste, in pena, ma accetta ciò che il figlio ha deciso.

Gesù continua dicendo che il padre «divise tra loro le sue sostanze». Queste parole ci fanno comprendere che Dio mai fermerà la libertà dell’uomo! Dio non può costringere l’uomo, pur amandolo immensamente, come un padre ama suo figlio.

Dopo aver ricevuto ciò che aveva richiesto, il figlio più giovane, «pochi giorni dopo, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto».

Questo giovane si diverte sperperando tutti i sudori del padre. Quando non ha più niente, perde gli amici e prova la fame, perde anche l’arroganza. Ciò significa che il peccato delude e si sta male lontano da Dio poiché senza il Padre la vita è amara.

Questo figlio, dunque, prova il dolore, la fatica, l’umiliazione, il disprezzo: va a pascolare i porci! Per la mentalità dell’ebreo era la più abietta condizione. Ma ecco la novità. Quel figlio comincia a capire ciò che ha fatto, ripensa a ciò che ha perso, pensa alla sua casa, a suo padre. Ed è in quel preciso istante che decide di ritornare, di chiedere perdono: «Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te». Qui accade l’incredibile! Questo figlio, che si è perso negli abissi del peccato, continua ad essere amato dal padre il quale lo accoglie a braccia aperte. Gesù dice: «Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò». Come è possibile che questo padre, nonostante l’offesa ricevuta, abbia accolto questo suo figlio con tanta gioia e tenerezza? Umanamente parlando, questa scena non riusciamo a comprenderla, però, se ragioniamo secondo la logica di Dio, allora tutto si può spiegare. Ciò significa che Dio dimentica le nostre colpe e, ogni volta che ritorniamo a lui pentiti, fa festa perché, come scrive san Giovanni: «Dio è Amore» (cf 1Gv 4, 8). Dunque Dio non ama il peccato degli uomini, ma ci ama nel nostro peccato, ci riconcilia con lui mentre noi siamo peccatori!

Nella parabola, Gesù parla anche dell’altro figlio, il maggiore, il quale «si trovava nei campi» e, al suo ritorno, «quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze», allora, «chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo». Il servo rispose dicendo: «Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo». Luca scrive che a questa risposta il fratello maggiore «si indignò». Perché questa reazione? Perché era geloso. La gelosia non è amore eccessivo, ma mancanza di amore. Il secondo figlio non ama il padre. Il primo è andato via di casa, ma poi, riconoscendo il suo errore, è tornato pentito e umile, a capo basso: «non sono più degno di essere chiamato tuo figlio». Il secondo, invece, che sta col padre, non ama veramente il padre perché il suo cuore è lontano da lui: egli non accetta la bontà, l’amore e la misericordia di suo padre. Il secondo figlio potrebbe essere ciascuno di noi! Tanta gente è lontana dalla Chiesa perché allontanata dai nostri cattivi esempi. Sorge spontanea una domanda: di fronte a coloro che si allontanano da Dio e dalla comunità, noi come reagiamo? Ci lamentiamo che le nostre chiese sono sempre più vuote. Ma perché sono vuote? Perché oggi le persone non vengono più in Chiesa? Tutti noi dobbiamo fare un attento esame di coscienza e chiedere perdono al Signore per i nostri comportamenti non cristiani che scandalizzano i piccoli (nella fede).

L’apostolo Paolo, nella prima lettera a Timoteo (II Lettura), presenta se stesso come prova vivente dell’infinita misericordia di Dio che lo ha trasformato da persecutore a banditore del vangelo. Per questo tutti i peccatori possono avere piena fiducia nella volontà di Dio che vuole salvare tutti.

Come per la preghiera di Mosè, Dio non abbandona il suo popolo ostinato nel rifiuto del suo amore (I Lettura), così, per intercessione di Gesù Cristo Signore nostro, che sempre intercede per noi, possa il Padre nostro che è nei cieli, aver misericordia per tutti i peccatori che si convertono. Amen!

Commento al Vangelo della XXIII Domenica del Tempo Ordinario Anno C (4 settembre 2022)

Il vero discepolo!

L’evangelista Luca annota che «una folla numerosa andava con Gesù». Anche oggi sono molti coloro che camminano dietro a Cristo Signore. Però, con quale cuore si segue Gesù? Con il cuore di Pietro o con quello di Giuda? Con il cuore di Tommaso o con quello di Giovanni? È importante chiarire cosa significa seguire Cristo. La risposta la da’ Gesù stesso quando voltandosi disse loro: «Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo». Queste parole di Gesù sono forti e ci fanno paura. Come si fa a mettere Cristo prima del padre e della madre, prima dei figli, prima di se stessi, prima di tutto? Cristo non chiede troppo?

Noi siamo consapevoli che per il cristiano il legame d’amore con Gesù, Parola di Dio fatta carne, deve avere l’assoluta precedenza su ogni altro vincolo, anche di sangue: è Cristo che il vero discepolo deve amare con tutto il cuore, la mente e le forze. Attenzione, però, non si tratta di una richiesta totalitaria: non bisogna amare lui soltanto, ma lui più degli altri nostri amori; bisogna amare, come lui ha amato (cf Gv 13, 34; 15,12), tutte le altre persone, senza alcuna distinzione.

Noi siamo tentati costantemente di preservare la nostra vita a ogni costo, di lasciar prevalere quella terribile pulsione dell’egoismo che ci spinge a vivere, molte volte, non solo come se gli altri non esistessero, ma anche come se Gesù Cristo non ci fosse. Ebbene, il cristiano, il vero discepolo, deve comprendere che la propria esistenza trova senso solo se lascia vivere Cristo in sé (cf Gal 2, 20), al punto che per lui dovremmo essere pronti anche a dare la nostra vita. Ricordiamoci che Gesù ha detto: «Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà» (cf Lc 9, 24). Se davvero vogliamo essere discepoli di Cristo, impariamo a portare la nostra croce ogni giorno: «Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo».

Per chi vive in questo modo risulta quasi naturale rinunciare anche ai propri beni, mettendo in pratica il monito di Gesù: «Chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo». Ciò significa che i nostri averi dobbiamo saperli usare a servizio dei fratelli, di saperli condividere con gioia, senza lasciarci rendere schiavi dalla malattia del possesso e dell’avarizia. Se Gesù è davvero il tesoro della nostra vita (cf Lc 12, 34), come potremo essere ancora preda dello stupido inganno della «seduzione della ricchezza» (cf Mt 13, 22) fino a smarrire il nostro cuore dietro ad essa?

La seconda lettura è una testimonianza sulla verità di questo vangelo. È tratta da una brevissima lettera scritta da san Paolo a Filèmone. In questa epistola si parla di Onesimo, schiavo fuggito da Colossi ad Efeso, forse finito in prigione, il quale incontra Paolo e si fa battezzare. Costui vorrebbe tornare dal suo padrone ma non ha il coraggio. Così Paolo scrive questo stupendo biglietto di raccomandazione al suo amico e discepolo Filèmone, perché lo accolga come fratello. Queste parole calde, umane, scritte dall’apostolo delle genti, ci ricordano che seguire Cristo significa fare come lui ha fatto: amare, perdonare!

Chiediamo al Signore affinché ci aiuti a essere dei veri discepoli, perseveranti fino alla morte, capaci di mettere Gesù Cristo al primo posto e amare veramente il prossimo come noi stessi.

Diceva mia nonna…

Diceva mia nonna…
Non lasciare che le tue padelle brillino più di te !
Non prendere la pulizia della casa così sul serio !
Quando sono diventata moglie, passavo le 24 ore del giorno guardando che tutto si tenesse pulito e in ordine nel caso “qualcuno venisse a trovarmi”, ma poi ho scoperto che sono tutti molto impegnati, passeggiando, si divertono, lavorano e si godono La vita…
-E se qualcuno appare all’improvviso ?
Non devo spiegare la situazione della mia casa a nessuno. Le persone non sono interessate a quello che stai facendo tutto il giorno, la gente passeggia, si diverte e si gode la vita.
La vita è breve, divertiti !
Rispolvera…se necessario. Ma abbi il tempo di dipingere un quadro o scrivere una poesia, fai una passeggiata o visita un amico, cucina quello che piace a te, annaffia le tue piante…concediti il tempo libero per bere una birra, nuotare in spiaggia (o piscina), scalare montagne, giocare con i cani, ascoltare musica, leggere libri, coltivare i tuoi amici e godere della vita.
Rispolvera, se necessario, ma la vita continua fuori.
Pensa che questo giorno non tornerà mai più !
Rispolvera, se necessario, ma non dimenticare che invecchierai e che molte cose che puoi fare ora non saranno così facili da fare nella tua vecchiaia.
E quando te ne vai, visto che ce ne andremo tutti un giorno, anche tu diventerai polvere !
E nessuno ricorderà quante bollette hai pagato, né la tua casa pulita, ma ricorderanno la tua amicizia, la tua gioia e quello che hai insegnato.

Commento al Vangelo della IV Domenica di Quaresima Anno C (27 marzo 2022)

Il padre ricco di misericordia

Questa quarta domenica di Quaresima, è chiamata domenica «Laetare». In tale giornata, secondo le regole dei colori liturgici, nella Chiesa cattolica è possibile utilizzare, invece del viola normalmente utilizzato durante la Quaresima, il colore rosa nei paramenti liturgici, possibile solo in questo giorno e nella domenica «Gaudete» in Avvento.

Orbene, il Vangelo di questa domenica ci propone una delle parabole più note: la parabola del figliol prodigo conosciuta anche come parabola del «Padre misericordioso».

Il brano evangelico che la contiene inizia in questo modo: «Si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: “Costui accoglie i peccatori e mangia con loro”». Allora Gesù disse loro questa parabola: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze». È da notare che il figlio giovane, chiedendo al padre la propria parte di eredità, è come se lo dichiarasse morto; il padre, invece, davanti alla richiesta del figlio, non si oppone, non lo punisce, anzi lo lascia libero e gli permette che si allontani da casa. E così il giovane, annota l’evangelista, «Pochi giorni dopo, raccolte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto». Notiamo che la via imboccata dal giovane si rivela fallimentare. Ha perso tutto, ha toccato il fondo, si accorge di aver dissipato tutto stupidamente. Non avendo più niente e trovandosi nel bisogno, si vede costretto a pascolare i porci (animali impuri per eccellenza, per gli ebrei).

«Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci». La degradazione e la fame fanno nascere la nostalgia dell’aria di casa e il desiderio di farvi ritorno, non più da figlio, ma almeno da servo, pur di respirare quell’aria e avere di che vivere decentemente. Il giovane, dunque, «ritornò in sé». Non sappiamo se il giovane sia pentito, dato che la sua presa di coscienza dipende dalla sua condizione penosa, e non sappiamo neppure se la consapevolezza di aver perso l’identità di figlio e di non poterla recuperare per qualche merito sia sincera oppure semplicemente un tentativo di commuovere il padre, pur di ottenere cibo e alloggio: «Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati». Questo figlio, però, che ragiona in una logica di giustizia retributiva, davvero non conosce il cuore del padre che, da parte sua, lo ha già perdonato.

E qui la parabola arriva al suo apice: «Si alzò e tornò da suo padre. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò». Il padre, dunque, lo sta aspettando e quando arriva, sporco e maleodorante, lo abbraccia, lo bacia prima ancora che lui parli. Poi il padre ordina ai servi: «Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato». Travolto da questa misericordia sovrabbondante, il figlio riesce solo a dire poche delle parole che si era preparato: è in questo momento che egli comprende che il padre non solo l’ha sempre atteso, ma lo ha amato anche quando lui lo ha abbandonato. Il padre non verifica se il figlio è pentito, lo accoglie, lo perdona e fa festa. Dio, dunque, scrive san Paolo, «non ama il peccato degli uomini, ma ci ama nel nostro peccato, ci ama mentre noi siamo suoi nemici» (cf Rm 5, 6-10).

La parabola potrebbe finire qui, ma Gesù vuole rivelarci anche la reazione del fratello maggiore, il quale si dimostra incapace quanto l’altro di comprendere l’amore del padre. Egli è rimasto a casa, non ha mai trasgredito un comando del padre. Ora è adirato, non comprende e non si capacita che il padre possa fare festa per suo fratello, «questo tuo figlio» egli lo chiama. Questa espressione sottolinea il disprezzo verso suo fratello. Il padre, però, annota Luca, «uscì a supplicarlo», pregandolo di entrare alla festa: «bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato».

Ebbene, l’atteggiamento dei due fratelli è un invito a verificare la nostra risposta alla misericordia del Padre. Siamo noi disposti a convertirci, a chiedere perdono e a riconciliarci con Dio? Siamo consapevoli che Dio ci ama teneramente ed immensamente? Siamo pronti ad accogliere nel nostro cuore la sua inesauribile misericordia? Nel Padre nostro ci rivolgiamo a Dio dicendo: «rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori». Dio perdona sempre le nostre colpe, e noi ci sforziamo di perdonare i nostri fratelli?

Chiediamo al Signore che ci aiuti a non vivere chiusi nei nostri risentimenti ma ad aprirci all’accoglienza verso il prossimo affinché possiamo rallegrarci in Lui.

Commento al Vangelo della IV Domenica di Quaresima Anno C (27 marzo 2022)

Il padre ricco di misericordia

Questa quarta domenica di Quaresima, è chiamata domenica «Laetare». In tale giornata, secondo le regole dei colori liturgici, nella Chiesa cattolica è possibile utilizzare, invece del viola normalmente utilizzato durante la Quaresima, il colore rosa nei paramenti liturgici, possibile solo in questo giorno e nella domenica «Gaudete» in Avvento.

Orbene, il Vangelo di questa domenica ci propone una delle parabole più note: la parabola del figliol prodigo conosciuta anche come parabola del «Padre misericordioso».

Il brano evangelico che la contiene inizia in questo modo: «Si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: “Costui accoglie i peccatori e mangia con loro”». Allora Gesù disse loro questa parabola: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze». È da notare che il figlio giovane, chiedendo al padre la propria parte di eredità, è come se lo dichiarasse morto; il padre, invece, davanti alla richiesta del figlio, non si oppone, non lo punisce, anzi lo lascia libero e gli permette che si allontani da casa. E così il giovane, annota l’evangelista, «Pochi giorni dopo, raccolte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto». Notiamo che la via imboccata dal giovane si rivela fallimentare. Ha perso tutto, ha toccato il fondo, si accorge di aver dissipato tutto stupidamente. Non avendo più niente e trovandosi nel bisogno, si vede costretto a pascolare i porci (animali impuri per eccellenza, per gli ebrei).

«Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci». La degradazione e la fame fanno nascere la nostalgia dell’aria di casa e il desiderio di farvi ritorno, non più da figlio, ma almeno da servo, pur di respirare quell’aria e avere di che vivere decentemente. Il giovane, dunque, «ritornò in sé». Non sappiamo se il giovane sia pentito, dato che la sua presa di coscienza dipende dalla sua condizione penosa, e non sappiamo neppure se la consapevolezza di aver perso l’identità di figlio e di non poterla recuperare per qualche merito sia sincera oppure semplicemente un tentativo di commuovere il padre, pur di ottenere cibo e alloggio: «Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati». Questo figlio, però, che ragiona in una logica di giustizia retributiva, davvero non conosce il cuore del padre che, da parte sua, lo ha già perdonato.

E qui la parabola arriva al suo apice: «Si alzò e tornò da suo padre. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò». Il padre, dunque, lo sta aspettando e quando arriva, sporco e maleodorante, lo abbraccia, lo bacia prima ancora che lui parli. Poi il padre ordina ai servi: «Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato». Travolto da questa misericordia sovrabbondante, il figlio riesce solo a dire poche delle parole che si era preparato: è in questo momento che egli comprende che il padre non solo l’ha sempre atteso, ma lo ha amato anche quando lui lo ha abbandonato. Il padre non verifica se il figlio è pentito, lo accoglie, lo perdona e fa festa. Dio, dunque, scrive san Paolo, «non ama il peccato degli uomini, ma ci ama nel nostro peccato, ci ama mentre noi siamo suoi nemici» (cf Rm 5, 6-10).

La parabola potrebbe finire qui, ma Gesù vuole rivelarci anche la reazione del fratello maggiore, il quale si dimostra incapace quanto l’altro di comprendere l’amore del padre. Egli è rimasto a casa, non ha mai trasgredito un comando del padre. Ora è adirato, non comprende e non si capacita che il padre possa fare festa per suo fratello, «questo tuo figlio» egli lo chiama. Questa espressione sottolinea il disprezzo verso suo fratello. Il padre, però, annota Luca, «uscì a supplicarlo», pregandolo di entrare alla festa: «bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato».

Ebbene, l’atteggiamento dei due fratelli è un invito a verificare la nostra risposta alla misericordia del Padre. Siamo noi disposti a convertirci, a chiedere perdono e a riconciliarci con Dio? Siamo consapevoli che Dio ci ama teneramente ed immensamente? Siamo pronti ad accogliere nel nostro cuore la sua inesauribile misericordia? Nel Padre nostro ci rivolgiamo a Dio dicendo: «rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori». Dio perdona sempre le nostre colpe, e noi ci sforziamo di perdonare i nostri fratelli?

Chiediamo al Signore che ci aiuti a non vivere chiusi nei nostri risentimenti ma ad aprirci all’accoglienza verso il prossimo affinché possiamo rallegrarci in Lui.

Commento al Vangelo della IV Domenica di Quaresima Anno C (27 marzo 2022)

Il padre ricco di misericordia

Questa quarta domenica di Quaresima, è chiamata domenica «Laetare». In tale giornata, secondo le regole dei colori liturgici, nella Chiesa cattolica è possibile utilizzare, invece del viola normalmente utilizzato durante la Quaresima, il colore rosa nei paramenti liturgici, possibile solo in questo giorno e nella domenica «Gaudete» in Avvento.

Orbene, il Vangelo di questa domenica ci propone una delle parabole più note: la parabola del figliol prodigo conosciuta anche come parabola del «Padre misericordioso».

Il brano evangelico che la contiene inizia in questo modo: «Si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: “Costui accoglie i peccatori e mangia con loro”». Allora Gesù disse loro questa parabola: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze». È da notare che il figlio giovane, chiedendo al padre la propria parte di eredità, è come se lo dichiarasse morto; il padre, invece, davanti alla richiesta del figlio, non si oppone, non lo punisce, anzi lo lascia libero e gli permette che si allontani da casa. E così il giovane, annota l’evangelista, «Pochi giorni dopo, raccolte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto». Notiamo che la via imboccata dal giovane si rivela fallimentare. Ha perso tutto, ha toccato il fondo, si accorge di aver dissipato tutto stupidamente. Non avendo più niente e trovandosi nel bisogno, si vede costretto a pascolare i porci (animali impuri per eccellenza, per gli ebrei).

«Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci». La degradazione e la fame fanno nascere la nostalgia dell’aria di casa e il desiderio di farvi ritorno, non più da figlio, ma almeno da servo, pur di respirare quell’aria e avere di che vivere decentemente. Il giovane, dunque, «ritornò in sé». Non sappiamo se il giovane sia pentito, dato che la sua presa di coscienza dipende dalla sua condizione penosa, e non sappiamo neppure se la consapevolezza di aver perso l’identità di figlio e di non poterla recuperare per qualche merito sia sincera oppure semplicemente un tentativo di commuovere il padre, pur di ottenere cibo e alloggio: «Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati». Questo figlio, però, che ragiona in una logica di giustizia retributiva, davvero non conosce il cuore del padre che, da parte sua, lo ha già perdonato.

E qui la parabola arriva al suo apice: «Si alzò e tornò da suo padre. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò». Il padre, dunque, lo sta aspettando e quando arriva, sporco e maleodorante, lo abbraccia, lo bacia prima ancora che lui parli. Poi il padre ordina ai servi: «Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato». Travolto da questa misericordia sovrabbondante, il figlio riesce solo a dire poche delle parole che si era preparato: è in questo momento che egli comprende che il padre non solo l’ha sempre atteso, ma lo ha amato anche quando lui lo ha abbandonato. Il padre non verifica se il figlio è pentito, lo accoglie, lo perdona e fa festa. Dio, dunque, scrive san Paolo, «non ama il peccato degli uomini, ma ci ama nel nostro peccato, ci ama mentre noi siamo suoi nemici» (cf Rm 5, 6-10).

La parabola potrebbe finire qui, ma Gesù vuole rivelarci anche la reazione del fratello maggiore, il quale si dimostra incapace quanto l’altro di comprendere l’amore del padre. Egli è rimasto a casa, non ha mai trasgredito un comando del padre. Ora è adirato, non comprende e non si capacita che il padre possa fare festa per suo fratello, «questo tuo figlio» egli lo chiama. Questa espressione sottolinea il disprezzo verso suo fratello. Il padre, però, annota Luca, «uscì a supplicarlo», pregandolo di entrare alla festa: «bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato».

Ebbene, l’atteggiamento dei due fratelli è un invito a verificare la nostra risposta alla misericordia del Padre. Siamo noi disposti a convertirci, a chiedere perdono e a riconciliarci con Dio? Siamo consapevoli che Dio ci ama teneramente ed immensamente? Siamo pronti ad accogliere nel nostro cuore la sua inesauribile misericordia? Nel Padre nostro ci rivolgiamo a Dio dicendo: «rimetti a noi i nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori». Dio perdona sempre le nostre colpe, e noi ci sforziamo di perdonare i nostri fratelli?

Chiediamo al Signore che ci aiuti a non vivere chiusi nei nostri risentimenti ma ad aprirci all’accoglienza verso il prossimo affinché possiamo rallegrarci in Lui.

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