Commento al Vangelo della V Domenica di Pasqua Anno B (28 aprile 2024)

La forza del cristiano? Rimanere in Cristo!

Domenica scorsa il Vangelo ha messo in risalto il rapporto tra il credente e Gesù Buon Pastore. Oggi, invece, il Vangelo si apre con l’immagine della vigna. «Gesù disse ai suoi discepoli: “Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore”». La vite è una pianta che forma un tutt’uno con i tralci; e i tralci sono fecondi unicamente in quanto uniti alla vite. Questa relazione è il segreto della vita cristiana e l’evangelista Giovanni la esprime col verbo “rimanere”, che nel brano odierno è ripetuto sette volte.

Spesso, nella Bibbia, Israele viene paragonato alla vigna feconda quando è fedele a Dio; ma, se si allontana da Lui, diventa sterile, incapace di produrre quel «vino che allieta il cuore dell’uomo», come recita il Salmo 104 (v. 15). La vera vigna di Dio, la vite vera, è Gesù, che con il suo sacrificio d’amore ci dona la salvezza, ci apre il cammino per essere parte di questa vigna. E come Cristo rimane nell’amore di Dio Padre, così i discepoli, sapientemente potati dalla parola del Maestro, se sono uniti in modo profondo a Lui, diventano tralci fecondi, che producono abbondante raccolto. Gesù, infatti, annota l’evangelista Giovanni, dice: «Ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto … Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me». Scrive san Francesco di Sales: «Il ramo unito e congiunto al tronco porta frutto non per propria virtù, ma per virtù del ceppo: ora, noi siamo stati uniti dalla carità al nostro Redentore, come le membra al capo; ecco perché … le buone opere, traendo il loro valore da Lui, meritano la vita eterna» (Trattato dell’amore di Dio, XI, 6, Roma 2011, 601).

Nel giorno del nostro Battesimo la Chiesa ci innesta come tralci nel Mistero Pasquale di Gesù, nella sua Persona stessa. Da questa radice riceviamo la preziosa linfa per partecipare alla vita divina. Come discepoli, anche noi, con l’aiuto dei Pastori della Chiesa, cresciamo nella vigna del Signore vincolati dal suo amore. «Se il frutto che dobbiamo portare è l’amore, il suo presupposto è proprio questo “rimanere” che profondamente ha a che fare con quella fede che non lascia il Signore» (Gesù di Nazaret, Milano 2007, 305). È indispensabile rimanere sempre uniti a Gesù, dipendere da Lui, perché senza di Lui non possiamo far nulla: «Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla». «Rimanere» in Cristo, dunque, garantisce l’efficacia della preghiera, come dice il beato cistercense Guerrico d’Igny: «O Signore Gesù … senza di te non possiamo fare nulla. Tu, infatti, sei il vero giardiniere, creatore, coltivatore e custode del tuo giardino, che pianti con la tua parola, irrighi con il tuo spirito, fai crescere con la tua potenza» (Sermo ad excitandam devotionem in psalmodiaSC 202, 1973, 522).

Ebbene, quando si è intimi con il Signore, come sono intimi e uniti tra loro la vite e i tralci, si è capaci di portare frutti di vita nuova, di misericordia, di giustizia e di pace, derivanti dalla Risurrezione del Signore. È quanto hanno fatto i Santi, coloro che hanno vissuto in pienezza la vita cristiana e la testimonianza della carità, perché sono stati veri tralci della vite del Signore. Ma per essere santi «non è necessario essere vescovi, sacerdoti o religiosi. […] Tutti noi, tutti, siamo chiamati ad essere santi vivendo con amore e offrendo ciascuno la propria testimonianza nelle occupazioni di ogni giorno, lì dove si trova» (Esort. ap.  Gaudete et exsultate, 14). Tutti noi siamo chiamati ad essere santi; dobbiamo essere santi con questa ricchezza che noi riceviamo dal Signore risorto. Ogni attività, sia piccola sia grande, se vissuta in unione con Gesù e con atteggiamento di amore e di servizio, è occasione per vivere in pienezza il Battesimo e la santità evangelica.

Ognuno di noi è come un tralcio, che vive solo se fa crescere ogni giorno nella preghiera, nella partecipazione ai Sacramenti, nella carità, la sua unione con il Signore. E chi ama Gesù, vera vite, produce frutti di fede per un abbondante raccolto spirituale.

Ci sia di aiuto Maria, Madre di Dio, Regina dei Santi e modello di perfetta comunione con il suo Figlio divino. Ci insegni Lei a rimanere saldamente innestati in Gesù, come tralci alla vite, e a non separarci mai dal suo amore. Ogni nostra azione abbia in Lui il suo inizio e in Lui il suo compimento. Nulla, infatti, possiamo senza di Lui, perché la nostra vita è Cristo vivo, presente nella Chiesa e nel mondo. Amen! 

Commento al Vangelo della solennità dell’Epifania Anno B (6 gennaio 2024)

Prostratisi lo adorarono!

San Matteo nel suo Vangelo scrive: «Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono». Il cammino esteriore di quegli uomini era finito. Erano giunti alla meta. Ma a questo punto per loro comincia un nuovo cammino, un pellegrinaggio interiore che cambia tutta la loro vita. Poiché sicuramente avevano immaginato questo Re neonato in modo diverso. Si erano appunto fermati a Gerusalemme per raccogliere presso il Re locale notizie sul promesso Re che era nato. Sapevano che il mondo era in disordine, e per questo il loro cuore era inquieto. Erano certi che Dio esisteva e che era un Dio giusto e benigno. E forse avevano anche sentito parlare delle grandi profezie in cui i profeti d’Israele annunciavano un Re che sarebbe stato in intima armonia con Dio, e che a nome e per conto di Lui avrebbe ristabilito il mondo nel suo ordine. Per cercare questo Re si erano messi in cammino: dal profondo del loro intimo erano alla ricerca del diritto, della giustizia che doveva venire da Dio, e volevano servire quel Re, prostrarsi ai suoi piedi e così servire essi stessi al rinnovamento del mondo. Appartenevano a quel genere di persone «che hanno fame e sete della giustizia» (cf Mt 5,6). Questa fame e questa sete avevano seguito nel loro pellegrinaggio – si erano fatti pellegrini in cerca della giustizia che aspettavano da Dio, per potersi mettere al servizio di essa.

Anche se gli altri uomini, quelli rimasti a casa, li ritenevano forse utopisti e sognatori – essi invece erano persone con i piedi sulla terra, e sapevano che per cambiare il mondo bisogna disporre del potere. Per questo non potevano cercare il bambino della promessa se non nel palazzo del Re. Ora però s’inchinano davanti a un bimbo di povera gente, e ben presto vengono a sapere che Erode – quel Re dal quale si erano recati – con il suo potere intendeva insidiarlo, così che alla famiglia non sarebbe restata che la fuga e l’esilio. Il nuovo Re, davanti al quale si erano prostrati in adorazione, si differenziava molto dalla loro attesa. Così dovevano imparare che Dio è diverso da come noi di solito lo immaginiamo. Qui cominciò il loro cammino interiore. Cominciò nello stesso momento in cui si prostrarono davanti a questo bambino e lo riconobbero come il Re promesso. Ma questi gesti gioiosi essi dovevano ancora raggiungerli interiormente.

Dovevano cambiare la loro idea sul potere, su Dio e sull’uomo e, facendo questo, dovevano anche cambiare se stessi. Ora vedevano: il potere di Dio è diverso dal potere dei potenti del mondo. Il modo di agire di Dio è diverso da come noi lo immaginiamo e da come vorremmo imporlo anche a Lui. Dio in questo mondo non entra in concorrenza con le forme terrene del potere. Non contrappone le sue divisioni ad altre divisioni. A Gesù, nell’Orto degli ulivi, Dio non manda dodici legioni di angeli per aiutarlo (cf Mt 26,53). Egli contrappone al potere rumoroso e prepotente di questo mondo il potere inerme dell’amore, che sulla Croce – e poi sempre di nuovo nel corso della storia – soccombe, e tuttavia costituisce la cosa nuova, divina, che poi si oppone all’ingiustizia e instaura il Regno di Dio. Dio è diverso – è questo che ora riconoscono. E ciò significa che ora essi stessi devono diventare diversi, devono imparare lo stile di Dio.

Erano venuti per mettersi a servizio di questo Re, per modellare la loro regalità sulla sua. Era questo il significato del loro gesto di ossequio, della loro adorazione. Di essa facevano parte anche i regali – oroincenso e mirra – doni che si offrivano a un Re ritenuto divino. L’adorazione ha un contenuto e comporta anche un dono. Volendo con il gesto dell’adorazione riconoscere questo bambino come il loro Re al cui servizio intendevano mettere il proprio potere e le proprie possibilità, gli uomini provenienti dall’Oriente seguivano senz’altro la traccia giusta. Servendo e seguendo Lui, volevano insieme con Lui servire la causa della giustizia e del bene nel mondo. E in questo avevano ragione. Ora però imparano che ciò non può essere realizzato semplicemente per mezzo di comandi e dall’alto di un trono. Ora imparano che devono donare se stessi – un dono minore di questo non basta per questo Re. Ora imparano che la loro vita deve conformarsi a questo modo divino di esercitare il potere, a questo modo d’essere di Dio stesso. Devono diventare uomini della verità, del diritto, della bontà, del perdono, della misericordia. Non domanderanno più: Questo a che cosa mi serve? Dovranno invece domandare: Con che cosa servo io la presenza di Dio nel mondo? Devono imparare a perdere se stessi e proprio così a trovare se stessi. Andando via da Gerusalemme, devono rimanere sulle orme del vero Re, al seguito di Gesù.

Ebbene, domandiamoci che cosa tutto questo significhi per noi. Poiché quello che abbiamo appena detto sulla natura diversa di Dio, che deve orientare la nostra vita, suona bello, ma resta piuttosto sfumato e vago. Per questo Dio ci ha donato degli esempi. I Magi provenienti dall’Oriente sono soltanto i primi di una lunga processione di uomini e donne che nella loro vita hanno costantemente cercato con lo sguardo la stella di Dio, che hanno cercato quel Dio che a noi, esseri umani, è vicino e ci indica la strada. È la grande schiera dei santi – noti o sconosciuti – mediante i quali il Signore, lungo la storia, ha aperto davanti a noi il Vangelo e ne ha sfogliato le pagine; questo, Egli sta facendo tuttora. Nelle loro vite, come in un grande libro illustrato, si svela la ricchezza del Vangelo. Essi sono la scia luminosa di Dio che Egli stesso lungo la storia ha tracciato e traccia ancora. I beati e i santi sono stati persone che non hanno cercato ostinatamente la propria felicità, ma semplicemente hanno voluto donarsi, perché sono state raggiunte dalla luce di Cristo. Essi ci indicano così la strada per diventare felici, ci mostrano come si riesce ad essere persone veramente umane. Nelle vicende della storia sono stati essi i veri riformatori che tante volte l’hanno risollevata dalle valli oscure nelle quali è sempre nuovamente in pericolo di sprofondare; essi l’hanno sempre nuovamente illuminata quanto era necessario per dare la possibilità di accettare – magari nel dolore – la parola pronunciata da Dio al termine dell’opera della creazione: «È cosa buona». Basta pensare a figure come San Benedetto, San Francesco d’Assisi, Santa Teresa d’Avila, Sant’Ignazio di Loyola, San Carlo Borromeo, ai fondatori degli Ordini religiosi dell’Ottocento che hanno animato e orientato il movimento sociale, o ai santi del nostro tempo – Massimiliano Kolbe, Edith Stein, Madre Teresa, Padre Pio. Contemplando queste figure impariamo che cosa significa «adorare», e che cosa vuol dire vivere secondo la misura del bambino di Betlemme, secondo la misura di Gesù Cristo e di Dio stesso.

I santi, abbiamo detto, sono i veri riformatori. Ora vorrei esprimerlo in modo ancora più radicale: Solo dai santi, solo da Dio viene la vera rivoluzione, il cambiamento decisivo del mondo. Nel secolo appena passato abbiamo vissuto le rivoluzioni, il cui programma comune era di non attendere più l’intervento di Dio, ma di prendere totalmente nelle proprie mani il destino del mondo. E abbiamo visto che, con ciò, sempre un punto di vista umano e parziale veniva preso come misura assoluta d’orientamento. L’assolutizzazione di ciò che non è assoluto ma relativo si chiama totalitarismo. Non libera l’uomo, ma gli toglie la sua dignità e lo schiavizza. Non sono le ideologie che salvano il mondo, ma soltanto il volgersi al Dio vivente, che è il nostro creatore, il garante della nostra libertà, il garante di ciò che è veramente buono e vero. La rivoluzione vera consiste unicamente nel volgersi senza riserve a Dio che è la misura di ciò che è giusto e allo stesso tempo è l’amore eterno. E che cosa mai potrebbe salvarci se non l’amore?

Sono molti coloro che parlano di Dio; nel nome di Dio si predica anche l’odio e si esercita la violenza. Perciò è importante scoprire il vero volto di Dio. I Magi dell’Oriente l’hanno trovato, quando si sono prostrati davanti al bambino di Betlemme. In Gesù Cristo, che per noi ha permesso che si trafiggesse il suo cuore, in Lui è comparso il vero volto di Dio. Lo seguiremo insieme con la grande schiera di coloro che ci hanno preceduto. Allora cammineremo sulla via giusta.

Questo significa che non ci costruiamo un Dio privato, non ci costruiamo un Gesù privato, ma che crediamo e ci prostriamo davanti a quel Gesù che ci viene mostrato dalle Sacre Scritture e che nella grande processione dei fedeli chiamata Chiesa si rivela vivente, sempre con noi e al tempo stesso sempre davanti a noi. Si può criticare molto la Chiesa. Noi lo sappiamo, e il Signore stesso ce l’ha detto: essa è una rete con dei pesci buoni e dei pesci cattivi, un campo con il grano e la zizzania. In fondo, è consolante il fatto che esista la zizzania nella Chiesa. Così, con tutti i nostri difetti possiamo tuttavia sperare di trovarci ancora nella sequela di Gesù, che ha chiamato proprio i peccatori. La Chiesa è come una famiglia umana, ma è anche allo stesso tempo la grande famiglia di Dio, mediante la quale Egli forma uno spazio di comunione e di unità attraverso tutti i continenti, le culture e le nazioni. Perciò siamo lieti di appartenere a questa grande famiglia che vediamo qui; siamo lieti di avere fratelli e amici in tutto il mondo.

«Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono». Ebbene sì. Questa non è una storia lontana, avvenuta tanto tempo fa. Questa è presenza. Qui nell’Ostia sacra Egli è davanti a noi e in mezzo a noi. Come allora, si vela misteriosamente in un santo silenzio e, come allora, proprio così svela il vero volto di Dio. Egli per noi si è fatto chicco di grano che cade in terra e muore e porta frutto fino alla fine del mondo (cf Gv 12,24). Egli è presente come allora in Betlemme. Ci invita a quel pellegrinaggio interiore che si chiama adorazione. Chiediamo prostrati al Re dei re, per intercessione della sua Santissima Madre, di guidarci nel nostro pellegrinaggio terreno. Amen!

  

Commemorazione dei fedeli defunti Anno A – III Messa (2 novembre 2023)

Le anime dei giusti sono nelle mani di Dio!

In questo giorno la Chiesa dirige i nostri pensieri e le nostre preghiere, in modo particolare, verso la «vita eterna». Dopo la solennità di tutti i Santi, oggi, giorno dedicato alla memoria dei defunti, noi desideriamo innanzitutto ricordare quanti, tra i nostri cari, hanno lasciato questa vita. Nel ricordarli, siamo chiamati a riflettere che l’esistenza umana non si risolve tutta dentro l’orizzonte terreno. Siamo invitati a considerare la vita alla luce del fine ultimo, del destino che ci attende dopo la morte, con lo sguardo rivolto alla nostra vocazione eterna.

Ebbene, alla luce della liturgia, che celebra il sacrificio di Cristo, siamo portati a riflettere oggi sul significato della morte. Da una parte, troviamo una riflessione realistica circa la precarietà della vita terrena, votata alla sconfitta; dall’altra il mistero eucaristico proclama che la morte di Cristo si è risolta nella risurrezione, evento decisivo per l’esistenza di ogni uomo.

Di fronte al ricordo dei nostri defunti noi siamo tristi perché siamo costretti a riconoscere con dolore che questo nostro corpo passa: i progetti, che noi costruiamo ogni giorno confidando nella salute, nella forza, nelle doti di cui disponiamo, sono provvisori, sono destinati a spegnersi. Ma, se accettiamo il messaggio che scaturisce dalla parola di Dio, or ora ascoltata, apprendiamo che morire non significa cadere nel nulla, nell’ombra buia della fine totale. Piuttosto significa passare a una nuova condizione di vita che è gloria e beatitudine eterna. La fede illumina il mistero della morte con confortanti certezze.

Oggi noi, col libro della Sapienza, professiamo che «le anime dei giusti sono nelle mani di Dio» perché Dio ha creato l’uomo per l’immortalità (cf Sap 2,23), cioè per la partecipazione a una vita senza fine. Coloro che per le loro opere buone hanno creduto e meritato il premio annunciato dalle promesse vivono nelle mani di Dio e nella pace. Noi, confidando nella parola rivelata, proclamiamo di fronte al mondo che le anime dei giusti dimorano presso Dio nell’amore, poiché egli nella sua sollecitudine non abbandona i suoi né li priva della sua protezione.

Agli occhi del mondo e in una prospettiva esclusivamente terrena «parve che morissero», ma la morte fisica è per i credenti solo un passaggio da un’esistenza di dolori e di prove alla vita piena e duratura nella felicità di Dio; non più un castigo, ma una liberazione dai molteplici mali, indotti nella vita umana dal peccato. I nostri morti sono nella pace, cioè nel godimento completo dei doni profetizzati, nella salvezza delle realtà finali, ultime ed eterne. Essi sono stati coinvolti nel destino del Cristo Risorto, il quale ha raccolto la loro vita di quaggiù per condurla nella sua gloria. Come scintille infuocate, le anime dei giusti splendono per l’eternità, in virtù della vittoria finale che Cristo glorioso ha operato sulla morte.

Il nostro sguardo sull’eternità è poi ancora confortato dalla luce del mistero della comunione dei Santi. Abbiamo ereditato dalle più antiche comunità cristiane la certezza che esiste una partecipazione intensa di vita tra noi e i fratelli che sono nella gloria celeste o che ancora dopo la morte stanno purificandosi (cf. Lumen Gentium, 49). Noi formiamo un’unica realtà soprannaturale, un unico corpo con coloro che ci hanno preceduto nella vita eterna: il corpo mistico di Gesù Cristo. Siamo perciò uniti, mediante Gesù, a quelli che sono entrati nella visione di Dio. Ma essi non ci hanno lasciati. Con loro formiamo una comunità, che si perfeziona nella preghiera e che l’offerta del sacrificio eucaristico realizza in modo eminente. L’amore che verso i nostri morti noi continuiamo a nutrire si esprime nell’orazione e in una singolare partecipazione di grazia, mentre siamo mossi dalla pietà a chiedere la loro intercessione ricordando i loro esempi di vita cristiana. Nella preghiera comune della Chiesa, che rivolgiamo a Dio uniti ai nostri defunti, noi possiamo pregustare quella liturgia della gloria eterna, verso la quale tutti camminiamo sorretti dalla speranza. Invochiamo anche noi, perciò, con il salmo responsoriale, la luce della verità che sostiene la speranza: «Manda la tua luce e la tua verità: siano esse a guidarmi, mi conducano alla tua santa montagna, alla tua dimora». Il tempo che fugge inesorabile e sospinge senza sosta tutti noi e le nostre cose verso la meta della morte sia illuminato dalla sublime luce e dalle esaltanti promesse della parola di Dio: questa ci sprona a non fermare i nostri passi su questa terra segnata dalle lacrime, ma a procedere verso la confortante meta del monte di Dio, il luogo in cui egli rivelerà a noi il suo volto, il monte dove egli abita, il paradiso. Chiediamo al Signore che ci renda degni della sua chiamata e ci faccia testimoni di queste verità, così che «sia glorificato il nome del Signore nostro Gesù» (cf 2Ts 1,11-12) da tutti coloro che crederanno per la nostra testimonianza.

Maria, colei che è stata redenta in modo privilegiato, è il segno dell’inizio del progetto di Dio di fare nuova ogni cosa. E noi ci rivolgiamo a te, Vergine Santa. In te inizia il mistero della Redenzione che ci libera dalla morte, perché l’eredità del peccato non ti ha raggiunta. Tu sei piena di grazia, e in te si apre per noi il regno di Dio, il nuovo avvenire dell’uomo, che può, nella fede, contemplare in te l’opera del suo rinnovamento e il fondamento della sua speranza d’immortalità. Tu porti a noi, nella tua purezza, il Figlio di Dio, la “luce venuta nel mondo”, e conduci tutti noi sulle vie della santità perché possiamo incontrare Cristo, ora e per sempre. Noi t’invochiamo, guidaci lungo il nostro cammino, Vergine Santa, affinché operando la verità veniamo alla luce del tuo Figlio, cerchiamo la grazia della sua parola, percorriamo fedelmente la via che conduce al monte di Dio, al porto soave dove sono giunti i nostri cari e dove, con Gesù, tu ci attendi. Amen!

 

PAPA FRANCESCO HA DETTO…

“Pensate a una madre single che va in parrocchia e dice al sacerdote: VOGLIO BATTEZZARE MIO FIGLIO, e il sacerdote risponde: “No, non si può, perché lei non si è sposata…”!

Teniamo presente che… questa madre ha avuto il coraggio di continuare una gravidanza, e cosa si trova? Con una porta chiusa!
E così, se seguiamo questa strada e con questo atteggiamento, non stiamo facendo del bene alla gente, al Popolo di Dio.

“CHI SI AVVICINA ALLA CHIESA DEVE TROVARE PORTE APERTE E NON FISCALI DELLA FEDE”.

“Abbiamo bisogno di santi senza velo, senza tonaca. Abbiamo bisogno di santi in jeans e scarpe da ginnastica.

Abbiamo bisogno di santi che vadano al cinema, ascoltino musica e passeggino con i loro amici.

Abbiamo bisogno di santi che mettano Dio al primo posto e che eccellano all’Università.

Abbiamo bisogno di santi che cerchino il tempo per pregare ogni giorno e che sappiano innamorarsi in purezza e castità, o che consacrino la loro castità.

Abbiamo bisogno di santi moderni, santi del ventunesimo secolo con una spiritualità inserita nel nostro tempo.

Abbiamo bisogno di santi impegnati con i poveri e i necessari cambiamenti sociali.

Abbiamo bisogno di santi che vivono nel mondo, che si santifichino nel mondo e che non abbiano paura di vivere nel mondo.

Abbiamo bisogno di santi che bevano Coca Cola e mangiano hot dog, che ascoltino iPod.

Abbiamo bisogno di santi che amino l’Eucaristia e che non si vergognino di bere una birra o mangiare pizza nel fine settimana con gli amici.

Abbiamo bisogno di santi a cui piace il cinema, il teatro, la musica, la danza, lo sport.

Abbiamo bisogno di santi socievoli, aperti, normali, amici, allegri, compagni.

Abbiamo bisogno di santi che siano al mondo e che sappiano assaporare le cose pure e buone del mondo, ma senza essere mondani”.

Questi dobbiamo essere noi!!!

Commento al Vangelo nella solennità di Tutti i Santi Anno B (1° novembre 2021)

Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli

La Chiesa, ancora pellegrina sulla terra, in questa celebrazione venera la solennità di Tutti i Santi. I Santi non sono modelli perfetti, ma persone che hanno vissuto per Cristo, amando Dio e il prossimo nella vita di ogni giorno. Possiamo paragonarli alle vetrate delle chiese, che fanno entrare la luce in diverse tonalità di colore. I Santi sono nostri fratelli e sorelle che hanno accolto la luce di Dio nel loro cuore e l’hanno trasmessa al mondo, ciascuno secondo la propria tonalità. Pensiamo ad un vivaio botanico; nel visitarlo si rimane stupefatti dinanzi alla varietà di piante e di fiori, e viene spontaneo pensare alla fantasia del Creatore che ha reso la terra un meraviglioso giardino. Analogo sentimento ci coglie quando consideriamo lo spettacolo della santità: il mondo ci appare come un “giardino”, dove lo Spirito di Dio ha suscitato con mirabile fantasia una moltitudine di Santi e Sante, di ogni età e condizione sociale, di ogni lingua, popolo e cultura. Ognuno diverso dall’altro, con la singolarità della propria personalità umana e del proprio carisma spirituale. Però, nonostante la diversità, tutti sono stati trasparenti, hanno lottato per togliere le macchie e le oscurità del peccato, così da far passare la luce dolce e gentile di Dio. Questo è lo scopo della vita, lo scopo della nostra vita: far passare la luce di Dio nel nostro cuore per poterlo un giorno contemplare nella Santa Gerusalemme.

Ecco perché la solennità di Tutti i Santi è la festa della Speranza! Speranza di poter vedere un giorno Dio così come egli è: «Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è» (II Lettura).

A molti, i Santi sembrano personaggi anacronistici e carichi di polvere. E muovono due difficoltà.

La prima è questa. Il mondo di oggi è adulto e quindi non ha bisogno di modelli da seguire. Questa prima difficoltà è banale, non vera, perché il mondo di oggi ha un vero e proprio culto per gli idoli dello sport, della canzone, del cinema, dello spettacolo etc.; ciò dimostra che l’uomo ha sempre bisogno di modelli.

La seconda difficoltà è più insidiosa. Molti dicono: “Se Dio è tutto, perché i Santi?”. Chi ragiona in questo modo non sa che la gioia di Dio sta proprio nel chiamare l’uomo a collaborare, nel renderlo partecipe della sua vita e quindi di tutte le ansie di misericordia che sono nel cuore dell’Eterno Padre. I Santi non suscitano concorrenza all’opera di Dio, così come un figlio vero non sarà mai rivale di un padre vero.

Ma chi sono i Santi? I Santi sono coloro che contemplano il volto misericordioso della Santa Trinità, sono gli amici di Dio, coloro che hanno fatto della carità, dell’amicizia fraterna e della giustizia il loro stile di vita; sono coloro che hanno vinto il proprio egoismo e hanno messo al centro della loro esistenza il Vangelo e l’amore come servizio per gli ultimi. Sono i fratelli maggiori che la Chiesa ci propone come modelli perché, peccatori come ognuno di noi, tutti hanno accettato di lasciarsi incontrare da Gesù, attraverso i loro desideri, le loro debolezze, le loro sofferenze, e anche le loro tristezze. I Santi, dunque, non sono superuomini e non lo saranno mai. Non sono nati perfetti, sono come noi, come ognuno di noi; persone che prima di raggiungere la gloria del cielo hanno vissuto una vita normale, con gioie e dolori, fatiche e speranze. La santità non è un lusso e un privilegio per pochi, ma è una vocazione per tutti. Tutti siamo chiamati a camminare sulla via della santità. Non è necessario chiudersi in un convento per essere santi. Tantissimi Santi non hanno neppure conosciuto il convento: basti pensare agli apostoli, ai martiri dei primi secoli, a santi che sono stati genitori, etc.

Essere santi significa non conformarsi alla mentalità del mondo. Oggi, tutti vogliono il successo, il potere, il denaro: il santo, invece, si fa povero, umile, perché ha trovato Dio e le cose del mondo non lo attirano più. Oggi, tutti vogliono vendicarsi se ricevono male: il santo, invece, è una persona mite che non si vendica ma che perdona come Gesù ha perdonato. Oggi, tutti pensano a sé: il santo, invece, ama il prossimo come se stesso. Oggi, tutti si lamentano delle prove, delle difficoltà che la vita presenta: il santo, invece, esulta perché nelle prove già sente i suoni di una festa che si avvicina e vede la luce di un giorno che sta per nascere. Il santo è colui che ha fissa nella mente una parola di Gesù: «Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli» (Vangelo). Questa è la strada seguita dai Santi: “le beatitudini”. Per ben nove volte l’evangelista Matteo riporta il termine «Beati». Per essere beati non si richiedono gesti eclatanti, da super eroi; ma vivere ogni giorno mettendo in pratica la Parola di Dio e fare la sua santa volontà. I Santi, come noi, hanno respirato l’aria inquinata dal male, dalla corruzione, dall’ipocrisia che c’è nel mondo, ma nel loro pellegrinaggio terreno non hanno perso mai di vista il tracciato di Gesù, quello indicato nelle beatitudini, che sono la mappa della vita cristiana. Oggi, quindi, è la festa di quelli che hanno raggiunto la meta indicata da questa mappa: non solo i Santi del calendario, ma tanti fratelli e sorelle della “porta accanto”, che magari abbiamo incontrato e conosciuto. L’apostolo ed evangelista Giovanni, nel Libro dell’Apocalisse, parla di una moltitudine immensa “centoquarantaquattromila”. Questo numero è simbolico; sta ad indicare che i Santi sono tantissimi: «E udii il numero di coloro che furono segnati con il sigillo: centoquarantaquattromila segnati, provenienti da ogni tribù dei figli d’Israele» (I Lettura). Essere “segnati dal sigillo” significa avere impressa l’impronta di Gesù, del suo amore, testimoniato attraverso la croce.

L’esperienza della Chiesa dimostra che ogni forma di santità passa sempre per la via della croce, della rinuncia a se stesso. Le biografie dei Santi descrivono uomini e donne che, docili ai disegni divini, hanno affrontato talvolta prove e sofferenze indescrivibili, persecuzioni e martirio. Però hanno perseverato nel loro impegno: «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello» (Ap. 7, 14), «i loro nomi sono scritti nel libro della vita» (Ap 20, 12) e la loro dimora è il Paradiso. L’esempio dei Santi deve essere per noi un incoraggiamento a seguire le stesse orme, a sperimentare la gioia di chi si fida di Dio, perché l’unica vera causa di tristezza e di infelicità per l’uomo è vivere lontano da Lui. Per tale motivo i Santi ci spronano a non fermarci lungo la strada, ci stimolano a continuare a camminare verso la meta nonostante le nostre imperfezioni e cadute. Sant’Agostino diceva: «Se è stato possibile per loro, perché non per noi?». La santità, quindi, è per tutti perché apparteniamo a Dio: siamo figli suoi.  

Concludo con le parole pronunciate da san Paolo VI durante l’Udienza generale del 16 marzo 1966: «[…] Ogni cristiano dev’essere un vero cristiano, un perfetto cristiano, perciò ogni cristiano dev’essere santo! Occorrono due cose per fare la santità: la grazia di Dio e la buona volontà. Avete voi queste due cose? sì? Allora siete santi! Intendiamoci: la santità è unica: consiste nell’essere uniti a Dio, vitalmente, mediante la carità; ma si realizza in tante forme diverse, e anche in tante misure diverse. È diversa la bontà, cioè la santità, d’un bambino dalla bontà d’una persona adulta; è diversa la bontà d’un uomo da quella di una donna; la bontà d’un soldato è diversa da quella, per così dire, d’un malato, o d’un vecchio! Ogni condizione di vita ha le sue virtù particolari. Ogni persona, possiamo dire, ha la sua propria maniera di realizzare la santità, a seconda delle proprie attitudini e dei propri doveri. Ma quello che dobbiamo ricordare è questo: ognuno di noi è chiamato ad essere santo, cioè ad essere veramente buono, veramente cristiano».

Commento al Vangelo della XXX Domenica del Tempo Ordinario Anno B (24 ottobre 2021)

Rabbunì, che io veda!

«Il figlio di Timeo, Bartimeo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare». È rarissimo che i Vangeli segnalino il nome del malato guarito da Gesù: nel brano evangelico di oggi c’è, invece, un’eccezione con Bartimeo, che in aramaico significa “figlio di Timeo”. Chi era, dunque, Bartimeo? Era uno dei tanti disgraziati di questo mondo. Uno che rappresenta tutte le disgrazie della vita umana e soprattutto rappresenta la condizione di ogni uomo. L’evangelista continua scrivendo: «Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: “Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!”». Il cieco di Gerico grida a squarciagola perché vuole essere sanato. Il suo forte grido è una preghiera carica di fiducia e di attesa: nasce dal profondo del cuore di un giovane che vuole cambiare completamente la sua vita. Forse, sarà stato anche un grido disperato, come quello di chi, non avendo più niente da perdere, prova ad attirare l’attenzione del taumaturgo di turno, del profeta di passaggio. Eppure, l’invocazione che nasce dall’intimo di Bartimeo è chiara: riconosce in Gesù il Messia, il figlio di Davide, si consegna alla sua pietà, alla sua misericordia. La reazione della gente davanti alla fede del cieco è dura, lo rimproverano, vogliono farlo tacere: «Molti lo rimproveravano perché tacesse». Succede spesso così: quando uno decide di vivere seriamente la fede, gli altri lo deridono. Pensiamo a san Francesco d’Assisi il quale, quando decise di abbandonare tutte le ricchezze per farsi povero, tutti lo ritennero un esaltato, un pazzo, un folle; a san Giovanni Bosco che, quando cominciò a raccogliere i giovani sbandati di Torino, tentarono di rinchiuderlo in manicomio. Così è accaduto ai santi; così accade ogni volta che facciamo una scelta vera per il Signore.

Quale è stata la reazione del Signore davanti a queste grida di aiuto? L’evangelista ci dice che: «Gesù si fermò e disse: “Chiamatelo!”. Chiamarono il cieco, dicendogli: “Coraggio! Alzati, ti chiama!”. Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù». Gesù, dunque, si ferma davanti al cieco, perché Dio non resiste al grido degli umili, dei poveri, dei sofferenti. Pensiamo alle tante persone che purtroppo sono costrette a letto negli ospedali, nelle nostre case; pensiamo alle persone anziane che vivono in case di riposo e sono state costrette a lasciare il calore e l’affetto delle loro case; pensiamo a tutte le persone handicappate, ai minorati e a tutte le persone che soffrono. Non abbandoniamole, non emarginiamole; anche loro sono figli di Dio, sono il nostro prossimo.

Che cosa ha risposto Gesù al cieco? «Che cosa vuoi che io faccia per te? E il cieco gli rispose: “Rabbunì, che io veda di nuovo!”. E Gesù gli disse: “Va’, la tua fede ti ha salvato”. E subito vide di nuovo». In verità questo cieco aveva cominciato a “vedere” prima della guarigione dei suoi occhi. Il miracolo fu soltanto un segno per premiare la sua fede e per scuotere l’incredulità degli altri. Chi crede, è già un vedente. Credere, allora, è dare il cuore a Gesù, fidarsi di lui, abbandonarsi completamente nelle sue tenere braccia, e seguirlo senza paura. Cristo è la nostra luce e, tutti coloro che si affidano a lui, non troveranno inciampi perché Dio «è un padre per Israele» (I Lettura).

La vita nuova ricevuta da Bartimeo ci insegna che Gesù non abbandona nessuno. «Egli, sommo sacerdote, è scelto fra gli uomini e per gli uomini viene costituito tale nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati» (II Lettura). Infatti, Cristo Signore, si è sacrificato sulla croce per i nostri peccati.

Papa Francesco nella Lettera enciclica Lumen fidei, al n. 18, scrive: «Nella fede, Cristo non è soltanto Colui in cui crediamo, la manifestazione massima dell’amore di Dio, ma anche Colui al quale ci uniamo per poter credere. La fede, non solo guarda a Gesù, ma guarda dal punto di vista di Gesù, con i suoi occhi: è una partecipazione al suo modo di vedere. In tanti ambiti della vita ci affidiamo ad altre persone che conoscono le cose meglio di noi. Abbiamo fiducia nell’architetto che costruisce la nostra casa, nel farmacista che ci offre il medicamento per la guarigione, nell’avvocato che ci difende in tribunale. Abbiamo anche bisogno di qualcuno che sia affidabile ed esperto nelle cose di Dio. Gesù, suo Figlio, si presenta come Colui che ci spiega Dio (cf. Gv 1, 18). La vita di Cristo – il suo modo di conoscere il Padre, di vivere totalmente nella relazione con Lui – apre uno spazio nuovo all’esperienza umana e noi vi possiamo entrare. San Giovanni ha espresso l’importanza del rapporto personale con Gesù per la nostra fede attraverso vari usi del verbo credere. Insieme al “credere che” è vero ciò che Gesù ci dice (cf. Gv 14, 10; 20,31), Giovanni usa anche le locuzioni “credere a” Gesù e “credere in” Gesù. “Crediamo a” Gesù, quando accettiamo la sua Parola, la sua testimonianza, perché egli è veritiero (cf. Gv 6, 30). “Crediamo in” Gesù, quando lo accogliamo personalmente nella nostra vita e ci affidiamo a Lui, aderendo a Lui nell’amore e seguendolo lungo la strada (cf. Gv 2, 11; 6, 47; 12, 44)».

Solennità della Beata Vergine Maria (messa del giorno)

Maria è la stella che guida i nostri passi

Nel cuore del mese di agosto la Chiesa in Oriente e in Occidente celebra la Solennità dell’Assunzione di Maria Santissima al Cielo. Nella Chiesa Cattolica, il dogma dell’Assunzione -come sappiamo – fu  proclamato durante l’Anno Santo del 1950 dal Venerabile Pio XII. Il Papa, nella Costituzione Apostolica Munificentissimus Deus del 1° novembre 1950, solennemente dichiarò: «Pertanto, dopo avere innalzato ancora a Dio supplici istanze, e avere invocato la luce dello Spirito di Verità, a gloria di Dio onnipotente, che ha riversato in Maria vergine la sua speciale benevolenza a onore del suo Figlio, Re immortale dei secoli e vincitore del peccato e della morte, a maggior gloria della sua augusta Madre e a gioia ed esultanza di tutta la chiesa, per l’autorità di nostro Signore Gesù Cristo, dei santi apostoli Pietro e Paolo e Nostra, pronunziamo, dichiariamo e definiamo essere dogma da Dio rivelato che: l’immacolata Madre di Dio sempre vergine Maria, terminato il corso della vita terrena, fu assunta alla gloria celeste in anima e corpo».

La celebrazione, però, di questo mistero di Maria affonda le radici nella fede e nel culto dei primi secoli della Chiesa, per quella profonda devozione verso la Madre di Dio che è andata sviluppandosi progressivamente nella Comunità cristiana.

Già dalla fine del IV secolo e l’inizio del V, abbiamo testimonianze di vari autori che affermano come Maria sia nella gloria di Dio con tutta se stessa, anima e corpo, ma è nel VI secolo che a Gerusalemme, la festa della Madre di Dio, la Theotòkos, consolidatasi con il Concilio di Efeso del 431, cambiò volto e divenne la festa della dormizione, del passaggio, del transito, dell’assunzione di Maria, divenne cioè la celebrazione del momento in cui Maria uscì dalla scena di questo mondo glorificata in anima e corpo in Cielo, in Dio.

Per capire l’Assunzione dobbiamo guardare alla Pasqua, il grande Mistero della nostra Salvezza, che segna il passaggio di Gesù alla gloria del Padre attraverso la passione, la morte e la risurrezione. Maria, che ha generato il Figlio di Dio nella carne, è la creatura più inserita in questo mistero, redenta fin dal primo istante della sua vita, e associata in modo del tutto particolare alla passione e alla gloria del suo Figlio. L’Assunzione al Cielo di Maria è pertanto il mistero della Pasqua di Cristo pienamente realizzato in Lei. Ella è intimamente unita al suo Figlio risorto, vincitore del peccato e della morte, pienamente conformata a Lui. Ma l’Assunzione è una realtà che tocca anche noi, perché ci indica in modo luminoso il nostro destino, quello dell’umanità e della storia. In Maria, infatti, contempliamo quella realtà di gloria a cui è chiamato ciascuno di noi e tutta la Chiesa.

Il brano del Vangelo di san Luca che leggiamo nella liturgia di questa Solennità ci fa vedere il cammino che la Vergine di Nazaret ha percorso per essere nella gloria di Dio. È il racconto della visita di Maria ad Elisabetta, in cui la Madonna è proclamata benedetta fra tutte le donne e beata perché ha creduto al compimento delle parole che le sono state dette dal Signore. E nel canto del «Magnificat» che eleva con gioia a Dio traspare la sua fede profonda. Ella si colloca tra i «poveri» e gli «umili», che non fanno affidamento sulle proprie forze, ma che si fidano di Dio, che fanno spazio alla sua azione capace di operare cose grandi proprio nella debolezza. Se l’Assunzione ci apre al futuro luminoso che ci aspetta, ci invita anche con forza ad affidarci di più a Dio, a seguire la sua Parola, a ricercare e compiere la sua volontà ogni giorno: è questa la via che ci rende «beati» nel nostro pellegrinaggio terreno e ci apre le porte del Cielo.

Il Concilio Ecumenico Vaticano II afferma: «Maria assunta in cielo, con la sua molteplice intercessione continua a ottenerci le grazie della salvezza eterna. Con la sua materna carità si prende cura dei fratelli del Figlio ancora peregrinanti e posti in mezzo a pericoli e affanni, fino a che non siano condotti nella patria beata» (Lumen gentium,62).

Invochiamo la Vergine Santa, sia la stella che guida i nostri passi all’incontro con il suo Figlio nel nostro cammino per giungere alla gloria del Cielo, alla gioia eterna. Amen.

PREGHIERA AI SANTI APOSTOLI PIETRO E PAOLO

San Pietro Apostolo, eletto da Gesù ad essere la roccia su cui è costruita la Chiesa, benedici e proteggi il sommo Pontefice, i Vescovi e tutti i cristiani sparsi nel mondo. Concedi a noi una fede viva e un amore grande alla Chiesa.

San Paolo Apostolo, propagatore del Vangelo fra tutte le genti, benedici e aiuta i missionari nella fatica dell’evangelizzazione e concedi a noi di essere sempre testimoni del Vangelo e di adoperarci per l’avvento del regno di Cristo nel mondo. Amen.

PREGHIERA A MARIA

Ave Regina del cielo,
ave Porta del paradiso,
Tu doni al mondo
la speranza e la pace.

Tu sei la gloria dei santi,
Tu la gioia di tutti gli angeli,
donaci ali di speranza,
o Santa Madre del Redentore.

Santa Madre di Dio,
dolce Rifugio dei peccatori,
nelle tempeste della vita
Tu sei il nostro conforto.

Consolatrice amorosa,
nell’angoscia e nel dolore
Tu sei Madre di misericordia.
Volgi i tuoi occhi su noi,
tuoi figli, che a te ricorriamo.

Madre d’amore,
Tu sei salvezza per ogni uomo.
Tu sei colei che intercede
per noi presso Cristo Signore,
tuo Figlio e Salvatore nostro.

Madre piena di grazia,
con fiducia noi veniamo a te.
Prega per noi,
o dolce Vergine Maria,
adesso e nell’ora
della nostra morte. Amen.

(Don Lucio)

Sabato santo: Veglia pasquale (3 aprile 2021)

Che cosa è la risurrezione?

In questa solenne Veglia pasquale riviviamo un evento che dà sostanza alla nostra fede e che è il centro della nostra speranza: la risurrezione di Cristo. «La speranza cristiana è la risurrezione dei morti; tutto ciò che noi siamo, lo siamo in quanto crediamo nella risurrezione», dice Tertulliano.

Ma che cosa è la risurrezione? La Chiesa cerca di condurci alla sua comprensione, traducendo questo avvenimento misterioso nel linguaggio dei simboli nei quali possiamo in qualche modo contemplare questo evento sconvolgente. Nella Veglia Pasquale essa ci indica il significato di questo giorno soprattutto mediante tre simboli: la luce, l’acqua e il canto nuovo: l’alleluia. 

La luce. In questa santissima notte, la Chiesa rappresenta il mistero di luce del Cristo nel segno del cero pasquale, la cui fiamma è insieme luce e calore. Il buio della notte viene attraversato dalla luce di Cristo. Per tre volte, infatti, il sacerdote o il diacono, alzando il cero, canta dicendo: «La luce di Cristo, oppure Cristo luce del mondo». Il simbolismo della luce è connesso con quello del fuoco: anch’esso è insieme luminosità e calore. Il cero pasquale arde e si consuma: ciò significa che croce e risurrezione sono inseparabili. Dalla croce nasce la luce, viene la vera luminosità nel mondo. Al cero pasquale noi tutti accendiamo le nostre candele, soprattutto quelle dei neobattezzati. La candela è il simbolo dell’illuminazione. La Chiesa antica, infatti, ha qualificato il Battesimo come Sacramento dell’illuminazione. Nel Battesimo il battezzando viene introdotto entro la luce di Cristo. Cristo, dunque, divide ora la luce dalle tenebre. In Lui riconosciamo che cosa è vero e che cosa è falso, che cosa è la luminosità e che cosa è il buio.

Abbiamo sentito parlare di luce anche nel racconto biblico appena ascoltato. Esso comincia con la parola: «Sia la luce!». Dove c’è la luce, nasce la vita. La risurrezione di Gesù, dunque, è un’eruzione di luce. La morte è superata, il sepolcro spalancato. Il Risorto stesso è Luce, la Luce del mondo, la Luce vera. Cristo è la grande Luce dalla quale proviene ogni vita. Egli ci fa riconoscere la gloria di Dio da un confine all’altro della terra. Egli ci indica la strada e vivendo con Lui e per Lui, possiamo vivere nella luce. 

Il secondo simbolo della Veglia Pasquale è l’acqua. Secondo l’ordinamento primitivo della Chiesa, il Battesimo doveva essere amministrato con acqua sorgiva fresca poiché essa è vita. Senza acqua non c’è vita. I catecumeni, quindi, in questa notte passano attraverso un’acqua che distrugge e rigenera. Come Israele nel Mar Rosso, essi passano insieme a Gesù attraverso il mare della morte e ne escono vittoriosi. Nelle acque del Battesimo viene inghiottito per tutti il mondo del peccato e riemerge la creazione nuova. L’acqua, fecondata dallo Spirito, genera il popolo dei figli di Dio: un popolo sacerdotale, profetico, regale. Per questo, insieme ai nuovi battezzati, anche noi, e l’intera comunità ecclesiale, facciamo memoria del passaggio pasquale del Cristo, e rinnoviamo attraverso le «promesse battesimali» la nostra fedeltà, confermiamo la nostra volontà di rinnovarci e di convertirci alla vita nuova (cf Rm 6,3-11). Il Battesimo, pertanto, non è solo un lavacro, ma una nuova nascita: con Cristo quasi discendiamo nel mare della morte, per risalire come creature nuove.

In merito all’acqua, inoltre, l’evangelista Giovanni ci racconta che un soldato con una lancia colpì il fianco di Gesù e che dal fianco aperto – dal suo cuore trafitto – uscì sangue e acqua (cf Gv 19,34). La Chiesa antica ne ha visto un simbolo per il Battesimo e l’Eucaristia che derivano dal cuore trafitto di Gesù. Nella morte Gesù è divenuto Egli stesso la sorgente. È Lui la sorgente di acqua viva. Da Lui sgorga il grande fiume che nel Battesimo fruttifica e rinnova  il mondo. Nel Battesimo il Signore fa di noi non solo persone di luce, ma anche sorgenti dalle quali scaturisce acqua viva. Noi tutti conosciamo persone simili che ci lasciano in qualche modo rinfrescati e rinnovati; persone che sono come una fonte di fresca acqua sorgiva. Non dobbiamo necessariamente pensare ai grandi come Agostino, Francesco d’Assisi, Teresa d’Avila, Madre Teresa di Calcutta, Pio da Pietrelcina e così via, persone attraverso le quali veramente fiumi di acqua viva sono entrati nella storia. Grazie a Dio, le troviamo continuamente anche nel nostro quotidiano: persone che sono una sorgente. Chiediamo al Signore, che ci ha donato la grazia del Battesimo, di poter essere sempre sorgenti di acqua pura, fresca, zampillante dalla fonte della sua verità e del suo amore! 

Ed infine, il terzo grande simbolo della Veglia Pasquale è il cantare l’alleluia. Quando un uomo sperimenta una grande gioia, non può tenerla per sé. Deve esprimerla, trasmetterla. Ma che cosa succede quando l’uomo viene toccato dalla luce della risurrezione e in questo modo viene a contatto con la Vita stessa, con la Verità e con l’Amore? Di ciò egli non può semplicemente parlare soltanto. Il parlare non basta più. Egli deve cantare. La prima menzione del cantare nella Bibbia, la troviamo dopo la traversata del Mar Rosso. Israele si è sollevato dalla schiavitù. È salito dalle profondità minacciose del mare. È come rinato. Vive ed è libero. La Bibbia descrive la reazione del popolo a questo grande evento del salvamento con la frase: «Il popolo credette nel Signore e in Mosè suo servo» (cf Es 14,31). Ne segue poi la seconda reazione che, con una specie di necessità interiore, emerge dalla prima: «Allora Mosè e gli Israeliti cantarono questo canto al Signore…». Nella Veglia Pasquale, anno per anno, noi cristiani intoniamo dopo la terza lettura questo canto, lo cantiamo come il nostro canto, perché anche noi mediante la potenza di Dio siamo stati tirati fuori dall’acqua e liberati alla vita vera. 

Ebbene, preghiamo il Signore affinché il piccolo lume della candela, che Egli ha acceso in noi, la luce delicata della sua parola e del suo amore, non si spenga ma diventi sempre più grande e più luminoso in modo che noi stessi diventiamo portatori della sua luce nel mondo. Amen. Alleluia.

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