Commento al Vangelo della V Domenica di Pasqua Anno B (28 aprile 2024)

La forza del cristiano? Rimanere in Cristo!

Domenica scorsa il Vangelo ha messo in risalto il rapporto tra il credente e Gesù Buon Pastore. Oggi, invece, il Vangelo si apre con l’immagine della vigna. «Gesù disse ai suoi discepoli: “Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore”». La vite è una pianta che forma un tutt’uno con i tralci; e i tralci sono fecondi unicamente in quanto uniti alla vite. Questa relazione è il segreto della vita cristiana e l’evangelista Giovanni la esprime col verbo “rimanere”, che nel brano odierno è ripetuto sette volte.

Spesso, nella Bibbia, Israele viene paragonato alla vigna feconda quando è fedele a Dio; ma, se si allontana da Lui, diventa sterile, incapace di produrre quel «vino che allieta il cuore dell’uomo», come recita il Salmo 104 (v. 15). La vera vigna di Dio, la vite vera, è Gesù, che con il suo sacrificio d’amore ci dona la salvezza, ci apre il cammino per essere parte di questa vigna. E come Cristo rimane nell’amore di Dio Padre, così i discepoli, sapientemente potati dalla parola del Maestro, se sono uniti in modo profondo a Lui, diventano tralci fecondi, che producono abbondante raccolto. Gesù, infatti, annota l’evangelista Giovanni, dice: «Ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto … Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me». Scrive san Francesco di Sales: «Il ramo unito e congiunto al tronco porta frutto non per propria virtù, ma per virtù del ceppo: ora, noi siamo stati uniti dalla carità al nostro Redentore, come le membra al capo; ecco perché … le buone opere, traendo il loro valore da Lui, meritano la vita eterna» (Trattato dell’amore di Dio, XI, 6, Roma 2011, 601).

Nel giorno del nostro Battesimo la Chiesa ci innesta come tralci nel Mistero Pasquale di Gesù, nella sua Persona stessa. Da questa radice riceviamo la preziosa linfa per partecipare alla vita divina. Come discepoli, anche noi, con l’aiuto dei Pastori della Chiesa, cresciamo nella vigna del Signore vincolati dal suo amore. «Se il frutto che dobbiamo portare è l’amore, il suo presupposto è proprio questo “rimanere” che profondamente ha a che fare con quella fede che non lascia il Signore» (Gesù di Nazaret, Milano 2007, 305). È indispensabile rimanere sempre uniti a Gesù, dipendere da Lui, perché senza di Lui non possiamo far nulla: «Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla». «Rimanere» in Cristo, dunque, garantisce l’efficacia della preghiera, come dice il beato cistercense Guerrico d’Igny: «O Signore Gesù … senza di te non possiamo fare nulla. Tu, infatti, sei il vero giardiniere, creatore, coltivatore e custode del tuo giardino, che pianti con la tua parola, irrighi con il tuo spirito, fai crescere con la tua potenza» (Sermo ad excitandam devotionem in psalmodiaSC 202, 1973, 522).

Ebbene, quando si è intimi con il Signore, come sono intimi e uniti tra loro la vite e i tralci, si è capaci di portare frutti di vita nuova, di misericordia, di giustizia e di pace, derivanti dalla Risurrezione del Signore. È quanto hanno fatto i Santi, coloro che hanno vissuto in pienezza la vita cristiana e la testimonianza della carità, perché sono stati veri tralci della vite del Signore. Ma per essere santi «non è necessario essere vescovi, sacerdoti o religiosi. […] Tutti noi, tutti, siamo chiamati ad essere santi vivendo con amore e offrendo ciascuno la propria testimonianza nelle occupazioni di ogni giorno, lì dove si trova» (Esort. ap.  Gaudete et exsultate, 14). Tutti noi siamo chiamati ad essere santi; dobbiamo essere santi con questa ricchezza che noi riceviamo dal Signore risorto. Ogni attività, sia piccola sia grande, se vissuta in unione con Gesù e con atteggiamento di amore e di servizio, è occasione per vivere in pienezza il Battesimo e la santità evangelica.

Ognuno di noi è come un tralcio, che vive solo se fa crescere ogni giorno nella preghiera, nella partecipazione ai Sacramenti, nella carità, la sua unione con il Signore. E chi ama Gesù, vera vite, produce frutti di fede per un abbondante raccolto spirituale.

Ci sia di aiuto Maria, Madre di Dio, Regina dei Santi e modello di perfetta comunione con il suo Figlio divino. Ci insegni Lei a rimanere saldamente innestati in Gesù, come tralci alla vite, e a non separarci mai dal suo amore. Ogni nostra azione abbia in Lui il suo inizio e in Lui il suo compimento. Nulla, infatti, possiamo senza di Lui, perché la nostra vita è Cristo vivo, presente nella Chiesa e nel mondo. Amen! 

Commento al Vangelo della III Domenica di Quaresima Anno C (20 marzo 2022)

Il Signore ha misericordia del suo popolo

Dopo averci presentato le tentazioni di Gesù e la sua trasfigurazione, l’itinerario quaresimale, proposto dalla liturgia in questo anno C, è un invito a meditare sulla misericordia di Dio che in Gesù Cristo sempre ci chiama a conversione, cioè a ritornare a Dio stesso con tutto il cuore, la mente e le forze.

Molte volte il dolore, le sofferenze, ci fanno giungere alla conclusione che Dio non c’è; mentre altre volte diciamo che Dio non è misericordioso perché si è dimenticato di noi! Queste nostre conclusioni sono errate perché «una vita senza dolore è come se uno dicesse che vive senza respirare». Possiamo vivere senza respirare? No! Dunque non possiamo pretendere di vivere senza sofferenza. Durante il nostro pellegrinaggio terreno vi sono momenti di gioia e, purtroppo, momenti tristi! Noi spesso attribuiamo a Dio cose che invece vengono dall’uomo e dalle cattive scelte dell’uomo; noi scarichiamo su Dio responsabilità che Dio non ha e non può avere. Se una persona decide di drogarsi, non è colpa di Dio; se una persona ha un male incurabile, non è colpa di Dio ma dell’uomo che sta rovinando questo mondo che il Signore ha creato! Le calamità naturali e le epidemie non vengono da Dio! Sorgono spontanee delle domande: ma Dio davanti a un mondo così malridotto, cosa fa? Ha ancora una speranza da offrirci?

Ai nostri interrogativi viene in aiuto la prima lettura. Leggendo il racconto della chiamata e della missione di Mosè rimaniamo meravigliati. Mosè sta vivendo una vita tranquilla, ma certamente non ha dimenticato il suo popolo, schiavo e oppresso in Egitto. La manifestazione del Signore nel roveto ardente sconvolge la sua tranquillità e tutti i suoi progetti. Sull’Oreb, monte di Dio, l’Onnipotente si fa conoscere a Mosè e a lui rivela il suo nome: Jahvè, che significa: «Io sono colui che sono». Il verbo essere in ebraico significa: «essere presente, essere attivo, essere accanto per aiutare». A volte ci creiamo delle immagini di Dio che non sono l’espressione del volto vero di Dio. Dio non è un idolo. Il Dio che noi dobbiamo cercare è il Dio che ode il grido degli oppressi, conosce le loro sofferenze e si schiera dalla loro parte. Il Dio che ci parla dal roveto, cioè dall’Eucaristia, non è un Dio estraneo, lontano, ma vicino; è il Dio con noi, il Dio che ci ama, il Dio che ha misericordia del suo popolo. Mosè, inizialmente, a causa della sua fragilità umana, è riluttante nell’accettare la missione che l’Onnipotente gli affida, però, ha fede nel Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe e obbedisce all’invito del Signore di liberare il suo popolo dalla schiavitù egiziana.

Dalla storia di Israele l’apostolo delle genti trae una lezione per i cristiani. Nella seconda lettura, infatti, Paolo parla del comportamento degli israeliti nella loro peregrinazione attraverso il deserto. Ciò significa che non basta essere battezzati, partecipare all’eucaristia, fare qualche preghiera o qualche elemosina, per sentirci a posto davanti al Signore. Se la nostra mente, la nostra vita, il nostro cuore non sono orientati al Signore, a nulla serve ciò che facciamo.

Ebbene, tutti siamo invitati a convertirci e soprattutto ad avere fede nella misericordia di Dio.

L’evangelista Luca narra che Gesù sta andando verso Gerusalemme incontro alla sua passione. Attorno a lui cresce anche l’attesa che si riveli come Messia e tanti si aspettano che prenda in mano le sorti di Israele per restaurare il regno di Davide e cacciare gli odiati romani. Alcuni, probabilmente, vogliono sondare le reazioni del Signore, quando si presentano a riferirgli che Pilato ha fatto uccidere dei Galilei durante la celebrazione di sacrifici nel tempio. Forse volevano vederlo indignato contro Pilato e desideroso di punire questa ulteriore offesa contro la religione di Israele. Ma Gesù non si lascia coinvolgere; coglie invece l’occasione per offrire due insegnamenti.

Il primo è di tipo teologico e riguarda il legame tra peccato e punizione: le tragedie che capitano nella vita non sono un castigo di Dio per i peccati, altrimenti tutti le subirebbero; invece vediamo che ciò non avviene, anzi molte volte i malvagi prosperano indisturbati, mentre i giusti soffrono in mille modi. Gesù, a conferma di ciò, aggiunge un altro episodio: il crollo della torre di Sìloe che ha ucciso diciotto persone innocenti.

Il secondo insegnamento, invece, è molto pratico e riguarda ogni persona che viene a conoscenza di tragedie toccate ad altri. La domanda da porsi, dunque, è: «e se fosse successo a me?» Una disgrazia, quindi, non è segno di castigo divino. Pensiamo ad una persona che muore giovane. Non è certamente una persona punita da Dio: moltissimi santi sono morti giovani! Le parole di Gesù «se non vi convertirete, perirete tutti allo stesso modo» stanno a significare che il Signore si preoccupa della salvezza e non della salute. Il Signore, dunque, ci esorta a convertirci e cambiare mentalità e modo di vivere.

Luca, a questo punto, preoccupato che qualcuno si spaventi e pensi che Dio stia in agguato per punire, utilizza la parabola del fico o della misericordia di Dio. Il Padre ha tanta pazienza nell’attendere che noi suoi figli portiamo frutti buoni nella nostra vita, ma il tempo è limitato (i tre anni della parabola). Quando si avvicina il tempo del giudizio, il Figlio (il vignaiolo) chiede ancora pazienza al Padre e fa di tutto (attraverso i suoi insegnamenti) perché noi comprendiamo il suo amore e ci impegniamo a vivere da veri figli di Dio. Chi non vorrà capire ancora e non si convertirà corre il rischio di essere «tagliato».

Il dolore, pertanto, non va pensato come punizione che viene da Dio, ma va visto come un richiamo ad affrettare il tempo della nostra conversione a Dio, per essere salvi nell’eternità.

Accogliamo l’invito di Dio, che è misericordioso e paziente, a cambiare e a convertire il nostro cuore sinceramente. Ogni giorno il cristiano dovrebbe dire: «Oggi ricomincio, oggi posso ricominciare, senza mai porre limiti alla misericordia di Dio».

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