Commento al Vangelo della V Domenica di Pasqua Anno B (28 aprile 2024)

La forza del cristiano? Rimanere in Cristo!

Domenica scorsa il Vangelo ha messo in risalto il rapporto tra il credente e Gesù Buon Pastore. Oggi, invece, il Vangelo si apre con l’immagine della vigna. «Gesù disse ai suoi discepoli: “Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore”». La vite è una pianta che forma un tutt’uno con i tralci; e i tralci sono fecondi unicamente in quanto uniti alla vite. Questa relazione è il segreto della vita cristiana e l’evangelista Giovanni la esprime col verbo “rimanere”, che nel brano odierno è ripetuto sette volte.

Spesso, nella Bibbia, Israele viene paragonato alla vigna feconda quando è fedele a Dio; ma, se si allontana da Lui, diventa sterile, incapace di produrre quel «vino che allieta il cuore dell’uomo», come recita il Salmo 104 (v. 15). La vera vigna di Dio, la vite vera, è Gesù, che con il suo sacrificio d’amore ci dona la salvezza, ci apre il cammino per essere parte di questa vigna. E come Cristo rimane nell’amore di Dio Padre, così i discepoli, sapientemente potati dalla parola del Maestro, se sono uniti in modo profondo a Lui, diventano tralci fecondi, che producono abbondante raccolto. Gesù, infatti, annota l’evangelista Giovanni, dice: «Ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto … Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me». Scrive san Francesco di Sales: «Il ramo unito e congiunto al tronco porta frutto non per propria virtù, ma per virtù del ceppo: ora, noi siamo stati uniti dalla carità al nostro Redentore, come le membra al capo; ecco perché … le buone opere, traendo il loro valore da Lui, meritano la vita eterna» (Trattato dell’amore di Dio, XI, 6, Roma 2011, 601).

Nel giorno del nostro Battesimo la Chiesa ci innesta come tralci nel Mistero Pasquale di Gesù, nella sua Persona stessa. Da questa radice riceviamo la preziosa linfa per partecipare alla vita divina. Come discepoli, anche noi, con l’aiuto dei Pastori della Chiesa, cresciamo nella vigna del Signore vincolati dal suo amore. «Se il frutto che dobbiamo portare è l’amore, il suo presupposto è proprio questo “rimanere” che profondamente ha a che fare con quella fede che non lascia il Signore» (Gesù di Nazaret, Milano 2007, 305). È indispensabile rimanere sempre uniti a Gesù, dipendere da Lui, perché senza di Lui non possiamo far nulla: «Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla». «Rimanere» in Cristo, dunque, garantisce l’efficacia della preghiera, come dice il beato cistercense Guerrico d’Igny: «O Signore Gesù … senza di te non possiamo fare nulla. Tu, infatti, sei il vero giardiniere, creatore, coltivatore e custode del tuo giardino, che pianti con la tua parola, irrighi con il tuo spirito, fai crescere con la tua potenza» (Sermo ad excitandam devotionem in psalmodiaSC 202, 1973, 522).

Ebbene, quando si è intimi con il Signore, come sono intimi e uniti tra loro la vite e i tralci, si è capaci di portare frutti di vita nuova, di misericordia, di giustizia e di pace, derivanti dalla Risurrezione del Signore. È quanto hanno fatto i Santi, coloro che hanno vissuto in pienezza la vita cristiana e la testimonianza della carità, perché sono stati veri tralci della vite del Signore. Ma per essere santi «non è necessario essere vescovi, sacerdoti o religiosi. […] Tutti noi, tutti, siamo chiamati ad essere santi vivendo con amore e offrendo ciascuno la propria testimonianza nelle occupazioni di ogni giorno, lì dove si trova» (Esort. ap.  Gaudete et exsultate, 14). Tutti noi siamo chiamati ad essere santi; dobbiamo essere santi con questa ricchezza che noi riceviamo dal Signore risorto. Ogni attività, sia piccola sia grande, se vissuta in unione con Gesù e con atteggiamento di amore e di servizio, è occasione per vivere in pienezza il Battesimo e la santità evangelica.

Ognuno di noi è come un tralcio, che vive solo se fa crescere ogni giorno nella preghiera, nella partecipazione ai Sacramenti, nella carità, la sua unione con il Signore. E chi ama Gesù, vera vite, produce frutti di fede per un abbondante raccolto spirituale.

Ci sia di aiuto Maria, Madre di Dio, Regina dei Santi e modello di perfetta comunione con il suo Figlio divino. Ci insegni Lei a rimanere saldamente innestati in Gesù, come tralci alla vite, e a non separarci mai dal suo amore. Ogni nostra azione abbia in Lui il suo inizio e in Lui il suo compimento. Nulla, infatti, possiamo senza di Lui, perché la nostra vita è Cristo vivo, presente nella Chiesa e nel mondo. Amen! 

Commento al Vangelo della XXVII Domenica del Tempo Ordinario Anno A (8 ottobre 2023)

Cristo: pietra angolare!

 La liturgia di questa domenica ci propone la parabola dei vignaioli, ai quali il padrone affida la vigna che aveva piantato e poi se ne va. Così viene messa alla prova la lealtà di questi vignaioli: la vigna è affidata loro, che devono custodirla, farla fruttificare e consegnare al padrone il raccolto. Giunto il tempo della vendemmia, il padrone manda i suoi servi a raccogliere i frutti. Ma i vignaioli assumono un atteggiamento possessivo: non si considerano semplici gestori, bensì proprietari, e si rifiutano di consegnare il raccolto. Maltrattano i servi, al punto da ucciderli. Il padrone si mostra paziente con loro: manda altri servi, più numerosi dei primi, ma il risultato è lo stesso. Alla fine decide di mandare il proprio figlio; ma quei vignaioli, prigionieri del loro comportamento possessivo, uccidono anche il figlio pensando che così avrebbero avuto l’eredità.

Questo racconto illustra in maniera allegorica quei rimproveri che i Profeti avevano detto sulla storia di Israele. È una storia che ci appartiene: si parla dell’alleanza che Dio ha voluto stabilire con l’umanità ed alla quale ha chiamato anche noi a partecipare. Questa storia di alleanza però, come ogni storia di amore, conosce i suoi momenti positivi ma è segnata anche da tradimenti e da rifiuti. Per far capire come Dio Padre risponde ai rifiuti opposti al suo amore e alla sua proposta di alleanza, il brano evangelico pone sulle labbra del padrone della vigna una domanda: «Quando verrà dunque il padrone della vigna, che cosa farà a quei contadini?». Questa domanda sottolinea che la delusione di Dio per il comportamento malvagio degli uomini non è l’ultima parola! È qui la grande novità del Cristianesimo: un Dio che, pur deluso dai nostri sbagli e dai nostri peccati, non viene meno alla sua parola, non si ferma e soprattutto non si vendica!

Sì! Dio non si vendica! Dio ama e ci aspetta per perdonarci, per abbracciarci. Attraverso le “pietre di scarto” – e Cristo è la prima pietra che i costruttori hanno scartato – attraverso situazioni di debolezza e di peccato, Dio continua a mettere in circolazione il «vino nuovo» della sua vigna, cioè la misericordia; questo è il vino nuovo della vigna del Signore: la misericordia. C’è un solo impedimento di fronte alla volontà tenace e tenera di Dio: la nostra arroganza e la nostra presunzione, che diventa talvolta anche violenza! Di fronte a questi atteggiamenti la Parola di Dio conserva tutta la sua forza di rimprovero e di ammonimento: «a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti».

Sono parole che fanno pensare alla grande responsabilità di chi, in ogni epoca, è chiamato a lavorare nella vigna del Signore, specialmente con ruolo di autorità, e spingono a rinnovare la piena fedeltà a Cristo. Egli è «la pietra che i costruttori hanno scartato», perché l’hanno giudicato nemico della legge e pericoloso per l’ordine pubblico; ma Lui stesso, rifiutato e crocifisso, è risorto, diventando la «pietra d’angolo» su cui possono poggiare con assoluta sicurezza le fondamenta di ogni esistenza umana e del mondo intero. Sant’Agostino commenta che «Dio ci coltiva come un campo per renderci migliori» (Sermo 87, 1, 2: PL 38, 531). Dio ha un progetto per i suoi amici, ma purtroppo la risposta dell’uomo è spesso orientata all’infedeltà, che si traduce in rifiuto. L’orgoglio e l’egoismo impediscono di riconoscere e di accogliere persino il dono più prezioso di Dio: il suo Figlio unigenito. Quando, infatti, «mandò loro il proprio figlio – scrive l’evangelista Matteo – … [i vignaioli] lo presero, lo cacciarono fuori dalla vigna e lo uccisero». Dio consegna se stesso nelle nostre mani, accetta di farsi mistero insondabile di debolezza e manifesta la sua onnipotenza nella fedeltà ad un disegno d’amore che, alla fine, prevede però anche la giusta punizione per i malvagi.

Saldamente ancorati nella fede alla pietra angolare che è Cristo, rimaniamo in Lui come il tralcio che non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite. Solamente in Lui, per Lui e con Lui si edifica la Chiesa, popolo della nuova Alleanza. Ha scritto in proposito il Papa san Paolo VI: «Il primo frutto dell’approfondita coscienza della Chiesa su se stessa è la rinnovata scoperta del suo vitale rapporto con Cristo. Notissima cosa, ma fondamentale, indispensabile, ma non mai abbastanza conosciuta, meditata, celebrata» (Enc. Ecclesiam suam, 6 agosto 1964: AAS 56 [1964], 622).

Invochiamo l’intercessione di Maria Santissima, affinché ci aiuti ad essere saldamente ancorati nella fede a Cristo Signore e ci aiuti ad essere dappertutto, specialmente nelle periferie della società, la vigna che il Signore ha piantato per il bene di tutti e a portare il vino nuovo della misericordia del Signore. Amen!

 

Commento al Vangelo della XXV Domenica del Tempo Ordinario Anno A (24 settembre 2023)

Umili operai nella vigna del Signore!

 

Nel Vangelo di oggi, Gesù racconta la parabola del padrone della vigna che a diverse ore del giorno chiama operai a lavorare nella sua vigna. E alla sera dà a tutti la stessa paga, «un denaro», suscitando la protesta di quelli della prima ora. È chiaro che quel denaro rappresenta la «vita eterna», dono che Dio riserva a tutti. Anzi, proprio quelli che sono considerati «ultimi», se lo accettano, diventano «primi», mentre i «primi» possono rischiare di finire «ultimi». Un primo messaggio di questa parabola sta nel fatto stesso che il padrone non tollera, per così dire, la disoccupazione: vuole che tutti siano impegnati nella sua vigna. E in realtà l’essere chiamati è già la prima ricompensa: poter lavorare nella vigna del Signore, mettersi al suo servizio, collaborare alla sua opera, costituisce di per sé un premio inestimabile, che ripaga di ogni fatica. Ma lo capisce solo chi ama il Signore e il suo Regno; chi invece lavora unicamente per la paga non si accorgerà mai del valore di questo inestimabile tesoro.

A narrare la parabola è san Matteo, apostolo ed evangelista e, di san Matteo, mi piace sottolineare che, in prima persona, ha vissuto questa esperienza (cf Mt 9,9). Egli infatti, prima che Gesù lo chiamasse, faceva di mestiere il pubblicano e perciò era considerato pubblico peccatore, escluso dalla «vigna del Signore». Ma tutto cambia quando Gesù, passando accanto al suo banco delle imposte, lo guarda e gli dice: «Seguimi». Matteo si alzò e lo seguì. Da pubblicano diventò immediatamente discepolo di Cristo. Da «ultimo» si trovò «primo», grazie alla logica di Dio, che – per nostra fortuna! – è diversa da quella del mondo. «I miei pensieri non sono i vostri pensieri – dice il Signore per bocca del profeta Isaia -, le vostre vie non sono le mie vie» (I Lettura). Anche san Paolo ha sperimentato la gioia di sentirsi chiamato dal Signore a lavorare nella sua vigna. E quanto lavoro ha compiuto! Ma, come egli stesso confessa, è stata la grazia di Dio a operare in lui, quella grazia che da persecutore della Chiesa lo trasformò in apostolo delle genti. Tanto da fargli dire: «Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno». Subito però aggiunge: «Ma se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto, non so davvero che cosa scegliere» (cf Fil 1,21-22). Paolo ha compreso bene che operare per il Signore è già su questa terra una ricompensa.

Ebbene, con questa parabola, Gesù vuole aprire i nostri cuori alla logica dell’amore del Padre, che è gratuito e generoso. Si tratta di lasciarsi stupire e affascinare dai «pensieri» e dalle «vie» di Dio. I pensieri umani sono spesso segnati da egoismi e tornaconti personali, e i nostri angusti e tortuosi sentieri non sono paragonabili alle ampie e rette strade del Signore. Egli – non dimentichiamolo mai – usa misericordia, perdona largamente, è pieno di generosità e di bontà che riversa su ciascuno di noi, apre a tutti i territori sconfinati del suo amore e della sua grazia, che soli possono dare al cuore umano la pienezza della gioia.

Gesù, inoltre, vuole farci contemplare lo sguardo di quel padrone: lo sguardo con cui vede ognuno degli operai in attesa di lavoro, e li chiama ad andare nella sua vigna. È uno sguardo pieno di attenzione, di benevolenza; è uno sguardo che chiama, che invita ad alzarsi, a mettersi in cammino, perché vuole la vita per ognuno di noi, vuole una vita piena, impegnata, salvata dal vuoto e dall’inerzia. Dio non esclude nessuno e vuole che ciascuno raggiunga la sua pienezza. Questo è l’amore del nostro Dio, del nostro Dio che è Padre.

Dalla Vergine Maria, che è tralcio perfetto della vigna del Signore, è germogliato il frutto benedetto dell’amore divino: Gesù, nostro Salvatore. Ci aiuti Lei a rispondere sempre e con gioia alla chiamata del Signore, e a trovare la nostra felicità nel poter faticare per il Regno dei cieli. Amen!

 

Commento al Vangelo della XXVII Domenica del Tempo Ordinario Anno A (4 ottobre 2020)

Il Figlio di Dio è la nostra salvezza

La prima lettura che è stata proclamata è uno sfogo appassionato del profeta Isaia, il quale, parlando a nome di Dio, esprime delusione e amarezza per il comportamento di Israele: e «Israele» siamo anche noi! Il profeta, attraversato dall’ispirazione, lascia uscire dal suo cuore alcuni interrogativi che sembrano singhiozzi di Dio: «Che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna che io non abbia fatto?». Lasciamoci interrogare da questo pianto, lasciamoci interpellare da questa divina sofferenza, lasciamoci scuotere da questo grido di amore deluso: è Dio, Dio stesso, che ci mette le mani sulle spalle e ci fissa negli occhi e ci chiede una ragione di tanta ingratitudine.

Notiamo innanzitutto, che il profeta chiama Israele «vigna del Signore». La vigna per l’Israelita era un bene preziosissimo: la vangava e la sgombrava dai sassi; la circondava con una siepe o con un muro; vigilava sul raccolto fino a restare a dormire in una apposita torre per difendere la vigna dai ladri e dagli animali. Dire allora: «voi siete la vigna del Signore», significava dire: «voi siete il bene prezioso di Dio!». Ma il profeta aggiunge: «Perché, mentre attendevo che producesse uva, essa ha prodotto acini acerbi?». L’uomo, purtroppo, delude Dio: è questa la terribile notizia che affiora spessissimo nella Scrittura (cf Gn 6,5-6). Ogni volta che deludiamo Dio dovremmo sentire brividi di sofferenza e di vergogna: noi non dobbiamo e non possiamo ferire il cuore paterno di Dio!

Nel vangelo Gesù riprende l’immagine calda e delicata usata da Isaia: questa immagine gli serve per tradurre splendidamente l’affetto, la tenerezza e la misericordia di Dio verso l’umanità. Egli dice: «c’era un uomo che possedeva un terreno e vi piantò una vigna. La circondò con una siepe, vi scavò una buca per il torchio e costruì una torre. La diede in affitto a dei contadini e se ne andò lontano». Gesù descrive tutta questa attenzione del padrone verso la vigna per dire che Dio ha seguito Israele senza risparmio di affetto, senza avarizia di doni, senza intervalli di amore. Dio ha veramente dato tutto: scegliendo Israele, Dio ha investito un immenso patrimonio di bontà! E la risposta di Israele? Purtroppo, nel momento del raccolto, Israele non solo ha rifiutato l’Amore, ma ha ucciso i profeti, donati con premura da Dio, perché erano scomodi e contestavano la vita infedele del popolo. Sono stati sempre osteggiati dal popolo, in particolare dalle sue guide religiose: si pensi solo alle persecuzioni subite da Geremia ad opera dei sacerdoti del tempio. È accaduto davvero l’inverosimile, l’assurdo! Il lamento di Dio, però, riguarda anche noi cristiani. Proviamo ad interrogarci: Dio è contento di noi? Può essere contento della nostra vita, delle nostre famiglie, dei nostri gruppi, delle nostre parrocchie? L’esame di coscienza potrebbe continuare…! È terribile scoprire di aver deluso Dio! Il vangelo di oggi ci ricorda questa tremenda possibilità e, nello stesso tempo, ci ammonisce che, deludendo Dio, la vigna è devastata.

Continuando il racconto della parabola, Gesù esclama: «Da ultimo mandò loro il proprio figlio dicendo: “Avranno rispetto per mio figlio!”». E così ha fatto. Ma gli operai della vigna (che siamo noi, tutti noi) hanno ucciso il figlio di Dio, Gesù, il quale sarà crocifisso fuori dalle mura di Gerusalemme (cf Mt 27, 31-33); e che «subì la passione fuori della porta della città» (cf Eb 13,12).

Gesù ha di fronte a sé proprio alcuni capi religiosi, ma significativamente non emette alcun giudizio; si limita a porre una domanda, lasciando che siano loro stessi a prendere coscienza della propria situazione: «Quando verrà dunque il padrone della vigna, che cosa farà a quei contadini?». Essi, annota l’evangelista, rispondono senza esitare: «Quei malvagi, li farà morire miseramente e darà in affitto la vigna ad altri contadini, che gli consegneranno i frutti a suo tempo»; pensano probabilmente che il duro verdetto non li tocchi direttamente ma riguardi altri. Ecco perché Gesù li rimanda ancora una volta all’autorità delle Scritture: «Non avete mai letto nelle Scritture: La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la pietra d’angolo; questo è stato fatto dal Signore ed è una meraviglia ai nostri occhi». Certo, essi avevano letto il Salmo (cf Sal 118, 22-23), così come conoscevano il passo di Isaia, ma non avevano compreso in profondità la Parola contenuta nelle Scritture: non potevano accettare la logica paradossale di Dio, il suo operare meraviglie attraverso ciò che è disprezzato dagli uomini (cf 1Cor 1,28), il suo salvare il mondo attraverso lo scandalo di un Messia crocifisso (cf 1Cor 1,17-25)! A questo punto, finalmente, gli interlocutori di Gesù capiscono che egli sta parlando di loro e cercano di catturarlo (cf Mt 21, 45-46): questa volta non ci riescono, ma per Gesù la fine si avvicina.

Prima di concludere questo difficile dialogo Gesù afferma: «a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti». Queste parole non riguardano solo i suoi interlocutori ma sono rivolte anche a noi, sempre tentati di pensare che il giudizio non ci tocchi, né personalmente né come chiesa. Esse sollecitano la nostra responsabilità a lasciare che Dio regni su di noi. Come? Facendo di Gesù la Pietra su cui fondare la nostra vita (cf 1Pt 2, 4-5).

Ebbene, nel Figlio crocifisso inizia la salvezza: non ripetiamo il tragico errore dei contemporanei di Gesù; accogliamo l’Amore di Dio e annunciamolo a tutti perché abbiano la gioia di sperimentare la bellezza del perdono.

Commento al Vangelo della XXVI Domenica del Tempo Ordinario Anno A (27 settembre 2020)

Riconosciamoci peccatori

Nel tempio di Gerusalemme Gesù è attorniato dai sommi sacerdoti e dagli anziani del popolo, i quali detestano questo rabbi e profeta proveniente dalla Galilea, e perciò lo mettono alla prova, chiedendogli con quale autorità egli insegni e operi guarigioni. Gesù, in risposta, domanda loro se il battesimo di Giovanni veniva dal cielo oppure dagli uomini; e di fronte al loro imbarazzato silenzio conclude: «Neanch’io vi dico con quale autorità faccio queste cose» (cf Mt 21,27).

A questo punto egli narra una parabola nella quale i protagonisti sono due figli. A costoro il padre chiede di andare a lavorare nella vigna: il primo, dopo aver risposto negativamente – «non ne ho voglia» -, si pentì e andò a lavoro; l’altro, invece, acconsentì a parole – «Sì, signore» -, ma non fece ciò che il padre aveva chiesto. A questo punto Gesù chiede: «Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». È il secondo ad aver compiuto la volontà del padre, ammettono gli interlocutori di Gesù. Ed egli commenta: «In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli». Con queste parole Gesù rivela che la salvezza può essere accolta solo da chi è disponibile a far ritorno a Dio, pentendosi del male fatto e abbandonando le proprie vie di peccato. In questo senso è utile analizzare più in profondità il senso del detto paradossale: «i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio» rivolto da Gesù agli uomini religiosi del suo tempo e, con loro, a ciascuno di noi.

Gesù sapeva bene che tutti gli uomini sono peccatori, se è vero che il giusto pecca sette volte al giorno (cf Pr 24,16); ma qual è il motivo della sua preferenza per la compagnia dei peccatori pubblici, riconosciuti tali dagli uomini? Chi pecca di nascosto non è mai spronato alla conversione da un rimprovero che gli venga da altri, perché continua a essere stimato per ciò che della sua persona appare all’esterno: questa è la malattia della maggior parte delle persone, tra le quali primeggiano quelle devote, che disprezzano gli altri considerandoli immersi nel peccato, mentre ringraziano Dio per la loro pretesa giustizia (cf Lc 18, 9-14). Chi invece è un peccatore pubblico si trova costantemente esposto al biasimo altrui, e in tal modo è indotto a un desiderio di cambiamento: nel pentimento che nasce da un «cuore spezzato» (cf Sal 34,19) egli può divenire sensibile alla presenza di Dio, quel Dio che non vuole la morte del peccatore, ma piuttosto che si converta e viva (cf Ez 18,23).

È proprio in forza di tale consapevolezza che Gesù amava sedere a tavola con i peccatori manifesti, condividere con loro questo gesto di estrema comunione. Il suo comportamento svela il cuore di Dio, mostra l’atteggiamento di Dio verso il peccatore, e per questo egli è contestato dagli uomini religiosi, che prima cercano di scandalizzare i suoi discepoli: «Come mai il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?» (cf Mt 9,11), poi lo accusano in modo diretto: «Ecco, è un mangione e un beone, un amico di pubblicani e di peccatori» (cf Mt 11,19). Ma l’amicizia di Gesù verso le persone meno stimate all’interno della società, la sua misericordia per prostitute e peccatori ignora il disprezzo di quanti si sentono migliori dei peccatori manifesti, semplicemente perché non vogliono o non sanno riconoscersi peccatori come loro.

Ebbene sì, il vero miracolo, dunque, consiste nel riconoscersi peccatori! Il pubblicano che si batte il petto non si accorge di presentare a Dio il regalo più bello che gli possa fare, offrendogli l’occasione di manifestare la sua bontà e la sua misericordia infinita.

San Giovanni Crisostomo, grande Padre della Chiesa d’Oriente (IV secolo), così scriveva: «Che cos’è il peccato davanti alla misericordia di Dio? È una tela di ragno che un soffio di vento basta a far volare via». È questo il grande messaggio che sprizza da ogni pagina della Sacra Scrittura. Non dimentichiamo ciò che proclama il profeta Isaia: «Anche se i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come neve. Se fossero rossi come porpora, diventeranno come lana» (cf Is 1,18).

A tal proposito san Giovanni Paolo II diceva: «L’amore di Dio è capace di chinarsi su ogni figlio prodigo, su ogni miseria morale, sul peccato. Quando ciò avviene, colui che è oggetto della misericordia non si sente umiliato, ma come ritrovato e rivalutato».

Commento al Vangelo della XXV Domenica del Tempo Ordinario Anno A (20 settembre 2020)

I primi e gli ultimi

«Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna»: così si apre la parabola di Gesù che oggi ascoltiamo.

Ebbene, il padrone della vigna si accorda con gli operai chiamati all’alba per il salario di un denaro al giorno; poi esce ancora a più riprese sulla piazza del paese e assolda altre persone che scorge disoccupate, rispettivamente alle nove, a mezzogiorno, alle tre e alle cinque del pomeriggio. Con tutti quelli ingaggiati più tardi egli non pattuisce una paga precisa, ma si limita a dire loro: «Andate anche voi nella vigna; quello che è giusto ve lo darò». Parole strane in bocca a un proprietario terriero, parole che contrastano con la logica di mercato e attirano la nostra attenzione: quale sarà il salario giusto?

Venuta la sera il padrone della vigna incarica il suo fattore di pagare gli operai «incominciando dagli ultimi fino ai primi». Quelli delle cinque del pomeriggio ricevono un denaro ciascuno, mentre a proposito degli altri lavoratori presi a partire dalle nove non si specifica nulla. «Quando arrivarono i primi, pensarono che avrebbero ricevuto di più»: è un calcolo umanissimo, che probabilmente molti di noi sottoscriverebbero, ma è un atto di presunzione che dimentica quanto il padrone aveva pattuito con loro. La realtà invece è un’altra: «anch’essi ricevettero ciascuno un denaro», come da accordo.

Ma nel ritirare il loro salario gli operai della prima ora non riescono a celare il loro disappunto. Essi però non hanno il coraggio di esprimere il loro dissenso mediante una parola franca e leale, ma mormorano contro il padrone. Già questa forma di «comunicazione» è sintomo di una doppiezza interiore, di un cuore diviso che porta ad avere labbra doppie (cf Sal 12,3; 119,10.13). Quanto al contenuto della loro lamentela, è ispirato alla logica perversa del paragone, del confronto con gli altri: «Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo». Ciò che non riescono a sopportare non è tanto la mancata corrispondenza tra lavoro compiuto e ricompensa, quanto l’uguaglianza del trattamento ricevuto, il pensiero che altri venuti dopo siano stati oggetto della benevolenza del padrone: «Tu li hai fatti uguali a noi», essi dicono letteralmente.

Tocca allora al padrone della vigna, figura di Dio, ricondurre questi contestatori alla realtà. Rivolgendosi a uno di loro egli innanzitutto lo chiama «amico», poi gli spiega: «io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene». Egli, dunque, si è comportato semplicemente in modo giusto. Ma non basta, il padrone si riserva la libertà di fare delle proprie ricchezze ciò che vuole: «io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te: non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?». In questa domanda è racchiusa la matrice profonda dell’invidia, sentimento che amareggia le nostre relazioni quotidiane: l’invidia consiste nell’avere un occhio cattivo verso l’altro fino a non volerlo più vedere e a desiderarne la scomparsa. Di nuovo, essa ha le sue radici nel cuore, perché «dal cuore degli uomini, escono i propositi di male» (cf Mc 7, 21).

Ed infine, Gesù conclude la parabola dicendo: «gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi». Ciò significa che molte persone che oggi sembrano buone, verranno smascherate e apparirà la loro segreta e ben incipriata malvagità; mentre molte altre persone che oggi vivono ignorate o emarginate o ingiustamente disprezzate, Dio le chiamerà ai primi posti nel giorno della grande verità: tra lo stupore di tutti!

Ed eccoci giunti all’ultimo insegnamento della parabola: Dio giudica ognuno non solo in rapporto a ciò che ha ricevuto, ma anche in rapporto a ciò che non ha ricevuto. Per fare un esempio: chi ha ricevuto il dono dell’istruzione (o della salute o della intelligenza o della forza o ogni altro dono) dovrà risponderne davanti a Dio, mentre non ne dovrà rispondere chi è rimasto analfabeta e incolto senza sua colpa.

Il discorso si può applicare a tutti gli aspetti della vita e va diritto ad una conclusione: se Dio ci ha fatto dono di qualcosa, convertiamolo subito in carità, affinché il «dono» un giorno non diventi «peso» che ci spinge all’ultimo posto.

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