Commento al Vangelo della XXVII Domenica del Tempo Ordinario Anno A (8 ottobre 2023)

Cristo: pietra angolare!

 La liturgia di questa domenica ci propone la parabola dei vignaioli, ai quali il padrone affida la vigna che aveva piantato e poi se ne va. Così viene messa alla prova la lealtà di questi vignaioli: la vigna è affidata loro, che devono custodirla, farla fruttificare e consegnare al padrone il raccolto. Giunto il tempo della vendemmia, il padrone manda i suoi servi a raccogliere i frutti. Ma i vignaioli assumono un atteggiamento possessivo: non si considerano semplici gestori, bensì proprietari, e si rifiutano di consegnare il raccolto. Maltrattano i servi, al punto da ucciderli. Il padrone si mostra paziente con loro: manda altri servi, più numerosi dei primi, ma il risultato è lo stesso. Alla fine decide di mandare il proprio figlio; ma quei vignaioli, prigionieri del loro comportamento possessivo, uccidono anche il figlio pensando che così avrebbero avuto l’eredità.

Questo racconto illustra in maniera allegorica quei rimproveri che i Profeti avevano detto sulla storia di Israele. È una storia che ci appartiene: si parla dell’alleanza che Dio ha voluto stabilire con l’umanità ed alla quale ha chiamato anche noi a partecipare. Questa storia di alleanza però, come ogni storia di amore, conosce i suoi momenti positivi ma è segnata anche da tradimenti e da rifiuti. Per far capire come Dio Padre risponde ai rifiuti opposti al suo amore e alla sua proposta di alleanza, il brano evangelico pone sulle labbra del padrone della vigna una domanda: «Quando verrà dunque il padrone della vigna, che cosa farà a quei contadini?». Questa domanda sottolinea che la delusione di Dio per il comportamento malvagio degli uomini non è l’ultima parola! È qui la grande novità del Cristianesimo: un Dio che, pur deluso dai nostri sbagli e dai nostri peccati, non viene meno alla sua parola, non si ferma e soprattutto non si vendica!

Sì! Dio non si vendica! Dio ama e ci aspetta per perdonarci, per abbracciarci. Attraverso le “pietre di scarto” – e Cristo è la prima pietra che i costruttori hanno scartato – attraverso situazioni di debolezza e di peccato, Dio continua a mettere in circolazione il «vino nuovo» della sua vigna, cioè la misericordia; questo è il vino nuovo della vigna del Signore: la misericordia. C’è un solo impedimento di fronte alla volontà tenace e tenera di Dio: la nostra arroganza e la nostra presunzione, che diventa talvolta anche violenza! Di fronte a questi atteggiamenti la Parola di Dio conserva tutta la sua forza di rimprovero e di ammonimento: «a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti».

Sono parole che fanno pensare alla grande responsabilità di chi, in ogni epoca, è chiamato a lavorare nella vigna del Signore, specialmente con ruolo di autorità, e spingono a rinnovare la piena fedeltà a Cristo. Egli è «la pietra che i costruttori hanno scartato», perché l’hanno giudicato nemico della legge e pericoloso per l’ordine pubblico; ma Lui stesso, rifiutato e crocifisso, è risorto, diventando la «pietra d’angolo» su cui possono poggiare con assoluta sicurezza le fondamenta di ogni esistenza umana e del mondo intero. Sant’Agostino commenta che «Dio ci coltiva come un campo per renderci migliori» (Sermo 87, 1, 2: PL 38, 531). Dio ha un progetto per i suoi amici, ma purtroppo la risposta dell’uomo è spesso orientata all’infedeltà, che si traduce in rifiuto. L’orgoglio e l’egoismo impediscono di riconoscere e di accogliere persino il dono più prezioso di Dio: il suo Figlio unigenito. Quando, infatti, «mandò loro il proprio figlio – scrive l’evangelista Matteo – … [i vignaioli] lo presero, lo cacciarono fuori dalla vigna e lo uccisero». Dio consegna se stesso nelle nostre mani, accetta di farsi mistero insondabile di debolezza e manifesta la sua onnipotenza nella fedeltà ad un disegno d’amore che, alla fine, prevede però anche la giusta punizione per i malvagi.

Saldamente ancorati nella fede alla pietra angolare che è Cristo, rimaniamo in Lui come il tralcio che non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite. Solamente in Lui, per Lui e con Lui si edifica la Chiesa, popolo della nuova Alleanza. Ha scritto in proposito il Papa san Paolo VI: «Il primo frutto dell’approfondita coscienza della Chiesa su se stessa è la rinnovata scoperta del suo vitale rapporto con Cristo. Notissima cosa, ma fondamentale, indispensabile, ma non mai abbastanza conosciuta, meditata, celebrata» (Enc. Ecclesiam suam, 6 agosto 1964: AAS 56 [1964], 622).

Invochiamo l’intercessione di Maria Santissima, affinché ci aiuti ad essere saldamente ancorati nella fede a Cristo Signore e ci aiuti ad essere dappertutto, specialmente nelle periferie della società, la vigna che il Signore ha piantato per il bene di tutti e a portare il vino nuovo della misericordia del Signore. Amen!

 

Commento al Vangelo della V Domenica di Pasqua Anno B (2 maggio 2021)

Restiamo uniti a Cristo come il tralcio alla vite

Nel suo insegnamento, Gesù prende spesso lo spunto da cose familiari agli ascoltatori e che erano sotto gli occhi di tutti. In tal modo, mentre udivano, con la fantasia essi potevano anche vedere; parola e immagine si sostenevano a vicenda. Soprattutto la vita dei campi gli fornisce immagini e spunti. Oggi, infatti, ci parla con l’immagine  del tralcio e della vite: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto».

L’affermazione più importante contenuta in queste parole è che noi siamo uniti a Gesù con un vincolo così profondo e vitale come quello che unisce il tralcio alla vite. Il tralcio è una emanazione, una parte della vite: tra le due cose scorre la stessa linfa. Sul piano spirituale, questa linfa è la vita divina che ci è stata data nel battesimo, lo Spirito Santo. Questa è un’unione più stretta di quella che c’è tra la madre e il figlio che porta in grembo. Tra madre e figlio scorre lo stesso sangue; il respiro e l’alimento della madre passano nel figlio. Ma il figlio non muore se si distacca dalla madre; anzi per vivere deve, a un certo punto, abbandonare il grembo materno e vivere per conto suo; muore se resta unito alla madre più tempo del normale. Nel caso nostro, il contrario: il tralcio non porta frutto e muore se si distacca dalla vite, vive se rimane unito ad essa: «Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me».

In merito al destino del tralcio Gesù prospetta due casi. Il primo negativo: il tralcio è secco, non porta frutto, viene perciò tagliato e buttato via; il secondo positivo: il tralcio è ancora vivo e vegeto, viene perciò potato. Già questo contrasto ci dice che la potatura non è un atto ostile verso il tralcio. Il vignaiolo si attende ancora molto da esso, sa che può portare frutti, ha fiducia in esso. Lo stesso avviene sul piano spirituale. Quando Dio interviene nella nostra vita con la croce, non vuole dire che egli è adirato con noi. Proprio il contrario. Nella lettera agli Ebrei infatti si legge: «Il Signore corregge colui che egli ama e percuote chiunque riconosce come figlio» (cf Eb 12,6).

Ma qual è lo scopo per cui il vignaiolo pota il tralcio e fa «piangere», come si usa dire, la vite? È proprio necessario potare? Sì, e per un motivo molto semplice: se non viene potata, la forza della vite si disperde, metterà forse più grappoli del dovuto, con la conseguenza di non riuscire a portarli a maturazione e di abbassare la gradazione del vino. Se resta a lungo senza essere potata, la vite addirittura inselvatichisce e produce solo pampini e uva selvatica.

Lo stesso succede nella nostra vita. Non solo nella vita spirituale, ma prima ancora nella nostra vita umana. La persona che nella vita vuole fare troppe cose, o coltiva un’infinità di interessi e di hobby, si disperde; non eccellerà in nulla. Bisogna avere il coraggio di fare delle scelte, lasciar cadere alcuni interessi secondari per concentrarsi su quelli primari. Dunque bisogna potare!

Questo è ancora più vero nella vita cristiana. La santità somiglia alla scultura. Leonardo da Vinci ha definito la scultura «l’arte di levare». Tutte le altre arti consistono nel mettere qualcosa: colore sulla tela nella pittura, pietra su pietra nell’architettura, nota su nota nella musica. Solo la scultura consiste nel levare: levare i pezzi di marmo che sono di troppo per far emergere la figura che si ha in mente. Anche la perfezione cristiana si ottiene così, levando, facendo cadere i pezzi inutili, cioè desideri, ambizioni, progetti che ci disperdono da tutte le parti e non ci permettono di concludere nulla.

Un giorno Michelangelo, passeggiando in un giardino di Firenze, vide, in un angolo, un blocco di marmo che sporgeva da sottoterra, mezzo ricoperto di erba e di fango. Si fermò di scatto, come se avesse visto qualcuno, e rivolto agli amici che erano con lui esclamò: «In quel blocco di marmo c’è racchiuso un angelo; debbo tirarlo fuori». E, armatosi di scalpello, cominciò a sbozzare quel blocco finché non emerse la figura di un bell’angelo.

Anche Dio ci guarda e ci vede così: come dei blocchi di pietra ancora informi e dice tra sé: «Lì dentro c’è nascosta una creatura nuova e bella che aspetta di venire alla luce perché noi, non dimentichiamolo mai, siamo “predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio suo”» (cf Rm 8,29). E allora che fa? Prende lo scalpello che è la croce e comincia a lavorarci; prende le forbici del potatore e comincia a potare. Non dobbiamo pensare a chissà quali croci terribili! Dio non aggiunge nulla a quello che la vita, da sola, presenta di sofferenza, fatica, tribolazioni; solo fa servire queste cose alla nostra purificazione. Certo, non è facile per nessuno sopportare i colpi dello scalpello divino. Tutti gemiamo sotto la croce, è naturale. Però tutto questo non è senza uno scopo, dopo la potatura ci sarà la primavera e i frutti che matureranno.  Dopo aver detto che «Dio corregge quelli che ama», il testo della Scrittura citato sopra aggiunge: «Certo, sul momento, ogni correzione non sembra causa di gioia, ma di tristezza; dopo, però, arreca un frutto di pace e di giustizia» (cf Eb 12,11).

Ebbene, diventare davvero tralci, diventare opera di Dio, diventare veri discepoli, non è questione di un’ora, ma è un percorso lungo e faticoso, in cui siamo chiamati a perseverare, a rimanere in comunione con Cristo.  Coloro che presumono di essere discepoli di Gesù Cristo, è bene ricordare che un grande padre della chiesa come sant’Ignazio di Antiochia solo al termine di una lunga vita, mentre si avviava al martirio, ha osato scrivere: «Ora comincio a essere discepolo di Cristo!». Quanto sono vere queste parole!

E allora cerchiamo di non aver paura quando sentiamo su di noi la mano di Dio che pota, perché da essa possiamo attingere consolazione e speranza.

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