Lettera a LUCIANA LITTIZZETTO

Una signora di 81 anni, colpita dalle parole e dalle parolacce di Luciana Littizzetto, ha deciso di spedirle una lettera: “Gentile signora Littizzetto, CARA SIGNORA LITTIZZETTO !!!! ho 81 anni, ho lavorato nei campi da quando ne avevo dieci anni e sono andata in pensione quando ne avevo 60, oggi percepisco una pensione di 478,00 euro al mese. Grazie a Dio ho un fazzoletto di terra dove ancora oggi coltivo un piccolo orto, zappando la terra come si faceva una volta, riesco a racimolarci ben poco: qualche cipolla, qualche patata, un po’ di insalata….. Ho difficoltà a salire le scale perchè la vita dura dei campi mi ha massacrato la schiena, dovrei fare delle terapie, ma dovrei pagarle perchè il servizio sanitario nazionale non le passa, dovrei assumere degli integratori alimentari che costano sui trenta euro per 15 giorni di cura, ma come può immaginare non posso acquistarli, perchè con 478 euro ci devo pagare la luce, il riscaldamento e il ticket per i farmaci che devo prendere per il mio cuore (circa 15 euro ogni 15 giorni). Non esco quasi mai da casa, perchè abito in campagna a 6 km dal paese e ora c’è la neve e la mia compagnia è spesso la Televisione. Mi hanno detto che lei prende circa 5 mila euro al giorno per andare a dire qualcosa su Rai Tre, così l’altro giorno ho guardato il programma di Fazio per sentire le cose che avrebbe detto. Pensavo che per prendere 5 mila euro al giorno dicesse cose importanti, mentre invece l’ho sentita dire solo parolacce e insultare Silvio Berlusconi che io ho votato, perchè grazie a lui la mia pensione oggi è di 478,00 euro, altrimenti sarebbe stata mi pare di 387,00. Ora le chiedo, perchè dovrei pagare alla RAI oltre cento euro per sentire le sue parolacce? Con cento euro potrei farci 4 cicli di terapia per le mie ginocchia! Lei se la prende con le escort, con Ruby etc ma non è differente, visto che guadagna 5 mila euro al giorno per tenere in bocca solo il ca…. e il turpiloquio! E’ comodo far finta di stare dalla parte dei poveri, far la parte delle verginelle, quando si prendono 5 mila euro al giorno facendo la escort del turpiloquio! Io sono una contadina vera, io sono una povera vera, io sono un’ignorante vera, ma le parolacce non le ho mai dette e non accetto che lei venga pagata anche con i miei soldi per dirle in RAI. Vada a dirle in un teatro dove solo chi vuole sentirle possa venire ad ascoltarla e si faccia pagare da quelli che vogliono sentirla, non da me che devo vivere con 478 euro al mese ad 81 anni! Grazie e scusi per il disturbo”.

Commento al Vangelo della VI Domenica di Pasqua Anno B (9 maggio 2021)

Dio si conosce amando

 Nelle letture di questa domenica è evidente e centrale il tema dell’amore. Questo, che è un argomento ricorrente nella prima Lettera di Giovanni, lo è anche nel brano del Vangelo dello stesso Giovanni che ci viene proposto oggi.

Giovanni, nella sua Lettera (seconda lettura) rivela che Dio è Amore. Tra le tante definizioni di Dio (essere perfettissimo, motore immobile, colui che è…), questa è certamente la più singolare e consolante. Dio non è responsabile del male che c’è nel mondo, Dio non manda i terremoti e le inondazioni, così come noi non siamo consegnati a un destino cieco e senza speranza, perché Dio è Amore e ci ama. «Dio non fa preferenza di persone» (prima lettura). Giovanni precisa che «Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore». Questa affermazione significa che se non siamo capaci di amare coloro che ci offendono, vuol dire che non abbiamo la carità di Dio e quindi non conosciamo Dio; se non siamo capaci di generosità senza aspettare ricompense, vuol dire che non abbiamo la carità di Dio e quindi siamo fuori della vita eterna; se non ci preoccupiamo di dare al prossimo  il nostro tempo, la nostra attenzione, il nostro affetto, il nostro servizio, noi non abbiamo carità e quindi nell’anima siamo già morti perché «chi non ama rimane nella morte» (cf 1Gv 3,14). Per questo solo chi ama può conoscere Dio perché lui ci ha amati per primo, di un amore senza misura, donandoci suo Figlio che si è offerto come «vittima di espiazione per i nostri peccati». Il cristianesimo, infatti, è annuncio di carità, di amore. La preghiera, la messa, l’eucaristia, l’adorazione, il rosario devono servire a farci crescere nella carità. Se tutto ciò non ci fa crescere nella carità non sono incontri con Dio, perché Dio è carità, è Amore e chi incontra Dio, necessariamente cresce nella carità. Santa madre Teresa di Calcutta diceva: «Se vedrete Dio nel prossimo riuscirete ad amare come Dio ama voi».

Nel Vangelo l’amore di Dio si manifesta nel suo Figlio Gesù. Egli infatti dice: «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore». Ogni cristiano è invitato a entrare in questo vortice d’amore. Dal momento che tra Padre e Figlio c’è amore condiviso e il Figlio ama noi, noi possiamo e dobbiamo sentirci coinvolti. Non solo: se il Padre ama il Figlio e il Figlio ci ama, anche noi dobbiamo amarci l’un l’altro.

Gesù inoltre dice: «Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena». Ma cosa è la gioia? La gioia nasce dall’amore, dal sentirsi amati e dall’amare a nostra volta. Senza l’amore, a che serve esistere? Senza l’amore quale sarebbe lo scopo della nostra vita?

Inoltre, annota l’evangelista, che Gesù dice: «Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore […] Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi». Gesù ha riassunto tutti i comandamenti nell’amore e ha proposto come pietra di paragone il buon samaritano, cioè uno che ama anche chi non è della sua famiglia, della sua terra, della sua razza. Uno che ama senza attendersi nulla.

Gesù aggiunge: «Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi». Ancora una volta si parla di amore e di amore di amicizia. Spesso pensiamo che l’amore di amicizia sia meno profondo e vero, meno importante. Quello che noi chiamiamo amore spesso è vestito di istinto e infatuazione. L’amicizia vera, invece, nasce spesso da un amore più raffinato e alto; genera rapporti di libertà, di rispetto, di condivisione. Ogni amore genuino dovrebbe colorarsi di amicizia per diventare più autentico e profondo, anche nel rapporto di coppia, anche in quello tra le persone di una stessa famiglia.  

«Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici». Gesù sicuramente sta pensando a se stesso, che tra breve si consegnerà alle sofferenze più atroci per dimostrare il suo amore senza misura. L’amore vero è quello che costa, non è solo qualcosa di romantico e di poetico. L’amore vero, a volte, chiede anche il sacrificio e il martirio: «Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri» (cf Gv 13,34).

Inoltre ai suoi apostoli il Maestro Divino dice: «tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda». Perché questa affermazione? Perché Dio ci ama e ci è amico. E dire di no ad un amico vero è difficile!

Il brano del Vangelo conclude con un comando di Gesù: «Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri». Ma l’amore può essere comandato? Sì. Perché esprime e arricchisce la nostra personalità. Perché l’amore è il valore più alto dal quale dipendono tutti gli altri, perché l’amore è presenza di Dio.

Il santo vescovo Agostino diceva: «Si possono avere tutti i sacramenti ed essere cattivi, ma non si può avere la carità ed essere cattivi».

Ebbene, noi possiamo attingere da questa carità, da questo amore, la forza per amare a nostra volta Dio, il prossimo, il coniuge, e per ottenere il perdono, ogni volta che abbiamo mancato di farlo. Amen.

Commento al Vangelo della V Domenica di Pasqua Anno B (2 maggio 2021)

Restiamo uniti a Cristo come il tralcio alla vite

Nel suo insegnamento, Gesù prende spesso lo spunto da cose familiari agli ascoltatori e che erano sotto gli occhi di tutti. In tal modo, mentre udivano, con la fantasia essi potevano anche vedere; parola e immagine si sostenevano a vicenda. Soprattutto la vita dei campi gli fornisce immagini e spunti. Oggi, infatti, ci parla con l’immagine  del tralcio e della vite: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto».

L’affermazione più importante contenuta in queste parole è che noi siamo uniti a Gesù con un vincolo così profondo e vitale come quello che unisce il tralcio alla vite. Il tralcio è una emanazione, una parte della vite: tra le due cose scorre la stessa linfa. Sul piano spirituale, questa linfa è la vita divina che ci è stata data nel battesimo, lo Spirito Santo. Questa è un’unione più stretta di quella che c’è tra la madre e il figlio che porta in grembo. Tra madre e figlio scorre lo stesso sangue; il respiro e l’alimento della madre passano nel figlio. Ma il figlio non muore se si distacca dalla madre; anzi per vivere deve, a un certo punto, abbandonare il grembo materno e vivere per conto suo; muore se resta unito alla madre più tempo del normale. Nel caso nostro, il contrario: il tralcio non porta frutto e muore se si distacca dalla vite, vive se rimane unito ad essa: «Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me».

In merito al destino del tralcio Gesù prospetta due casi. Il primo negativo: il tralcio è secco, non porta frutto, viene perciò tagliato e buttato via; il secondo positivo: il tralcio è ancora vivo e vegeto, viene perciò potato. Già questo contrasto ci dice che la potatura non è un atto ostile verso il tralcio. Il vignaiolo si attende ancora molto da esso, sa che può portare frutti, ha fiducia in esso. Lo stesso avviene sul piano spirituale. Quando Dio interviene nella nostra vita con la croce, non vuole dire che egli è adirato con noi. Proprio il contrario. Nella lettera agli Ebrei infatti si legge: «Il Signore corregge colui che egli ama e percuote chiunque riconosce come figlio» (cf Eb 12,6).

Ma qual è lo scopo per cui il vignaiolo pota il tralcio e fa «piangere», come si usa dire, la vite? È proprio necessario potare? Sì, e per un motivo molto semplice: se non viene potata, la forza della vite si disperde, metterà forse più grappoli del dovuto, con la conseguenza di non riuscire a portarli a maturazione e di abbassare la gradazione del vino. Se resta a lungo senza essere potata, la vite addirittura inselvatichisce e produce solo pampini e uva selvatica.

Lo stesso succede nella nostra vita. Non solo nella vita spirituale, ma prima ancora nella nostra vita umana. La persona che nella vita vuole fare troppe cose, o coltiva un’infinità di interessi e di hobby, si disperde; non eccellerà in nulla. Bisogna avere il coraggio di fare delle scelte, lasciar cadere alcuni interessi secondari per concentrarsi su quelli primari. Dunque bisogna potare!

Questo è ancora più vero nella vita cristiana. La santità somiglia alla scultura. Leonardo da Vinci ha definito la scultura «l’arte di levare». Tutte le altre arti consistono nel mettere qualcosa: colore sulla tela nella pittura, pietra su pietra nell’architettura, nota su nota nella musica. Solo la scultura consiste nel levare: levare i pezzi di marmo che sono di troppo per far emergere la figura che si ha in mente. Anche la perfezione cristiana si ottiene così, levando, facendo cadere i pezzi inutili, cioè desideri, ambizioni, progetti che ci disperdono da tutte le parti e non ci permettono di concludere nulla.

Un giorno Michelangelo, passeggiando in un giardino di Firenze, vide, in un angolo, un blocco di marmo che sporgeva da sottoterra, mezzo ricoperto di erba e di fango. Si fermò di scatto, come se avesse visto qualcuno, e rivolto agli amici che erano con lui esclamò: «In quel blocco di marmo c’è racchiuso un angelo; debbo tirarlo fuori». E, armatosi di scalpello, cominciò a sbozzare quel blocco finché non emerse la figura di un bell’angelo.

Anche Dio ci guarda e ci vede così: come dei blocchi di pietra ancora informi e dice tra sé: «Lì dentro c’è nascosta una creatura nuova e bella che aspetta di venire alla luce perché noi, non dimentichiamolo mai, siamo “predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio suo”» (cf Rm 8,29). E allora che fa? Prende lo scalpello che è la croce e comincia a lavorarci; prende le forbici del potatore e comincia a potare. Non dobbiamo pensare a chissà quali croci terribili! Dio non aggiunge nulla a quello che la vita, da sola, presenta di sofferenza, fatica, tribolazioni; solo fa servire queste cose alla nostra purificazione. Certo, non è facile per nessuno sopportare i colpi dello scalpello divino. Tutti gemiamo sotto la croce, è naturale. Però tutto questo non è senza uno scopo, dopo la potatura ci sarà la primavera e i frutti che matureranno.  Dopo aver detto che «Dio corregge quelli che ama», il testo della Scrittura citato sopra aggiunge: «Certo, sul momento, ogni correzione non sembra causa di gioia, ma di tristezza; dopo, però, arreca un frutto di pace e di giustizia» (cf Eb 12,11).

Ebbene, diventare davvero tralci, diventare opera di Dio, diventare veri discepoli, non è questione di un’ora, ma è un percorso lungo e faticoso, in cui siamo chiamati a perseverare, a rimanere in comunione con Cristo.  Coloro che presumono di essere discepoli di Gesù Cristo, è bene ricordare che un grande padre della chiesa come sant’Ignazio di Antiochia solo al termine di una lunga vita, mentre si avviava al martirio, ha osato scrivere: «Ora comincio a essere discepolo di Cristo!». Quanto sono vere queste parole!

E allora cerchiamo di non aver paura quando sentiamo su di noi la mano di Dio che pota, perché da essa possiamo attingere consolazione e speranza.

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