Commento al Vangelo della XXXIII Domenica del Tempo Ordinario Anno A (19 novembre 2023)

Facciamo fruttificare i nostri talenti!

La Parola di Dio di questa domenica – la penultima dell’anno liturgico – ci invita ad essere vigilanti e operosi, nell’attesa del ritorno del Signore Gesù alla fine dei tempi. La pagina evangelica narra la celebre parabola dei talenti, riportata da san Matteo. Il “talento” era un’antica moneta romana, di grande valore, e proprio a causa della popolarità di questa parabola è diventata sinonimo di dote personale, che ciascuno è chiamato a far fruttificare. In realtà, il testo parla di «un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno». Il servo che ha ricevuto cinque talenti è intraprendente e li fa fruttare guadagnandone altri cinque. Allo stesso modo si comporta il servo che ne ha ricevuti due, e ne procura altri due. Invece il servo che ne ha ricevuto uno, scava una buca nel terreno e vi nasconde la moneta del suo padrone.

È questo stesso servo che spiega al padrone, al suo ritorno, il motivo del suo gesto, dicendo: «Signore, io so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra». Questo servo non ha col suo padrone un rapporto di fiducia, ma ha paura di lui, e questa lo blocca. La paura immobilizza sempre e spesso fa compiere scelte sbagliate. La paura scoraggia dal prendere iniziative, induce a rifugiarsi in soluzioni sicure e garantite, nel «si è fatto sempre così», e in questo modo si finisce per non realizzare niente di buono. Per andare avanti e crescere nel cammino della vita, non bisogna avere paura, bisogna avere fiducia.

L’uomo della parabola rappresenta Cristo stesso, i servi sono i discepoli e i talenti sono i doni che Gesù affida loro. Perciò tali doni, oltre alle qualità naturali, rappresentano le ricchezze che il Signore Gesù ci ha lasciato in eredità, perché le facciamo fruttificare: la sua Parola, depositata nel santo Vangelo; il Battesimo, che ci rinnova nello Spirito Santo; la preghiera – il “Padre nostro” – che eleviamo a Dio come figli uniti nel Figlio; il suo perdono, che ha comandato di portare a tutti; il sacramento del suo Corpo immolato e del suo Sangue versato. In una parola: il Regno di Dio, che è Lui stesso, presente e vivo in mezzo a noi. Questo è il tesoro che Gesù ha affidato ai suoi amici, al termine della sua breve esistenza terrena.

La parabola odierna, dunque, insiste sull’atteggiamento interiore con cui accogliere e valorizzare questo dono e ci fa capire quanto è importante avere un’idea vera di Dio. Non dobbiamo pensare che Egli sia un padrone cattivo, duro e severo che vuole punirci. Se dentro di noi c’è questa immagine sbagliata di Dio, allora la nostra vita non potrà essere feconda, perché vivremo nella paura e questa non ci condurrà a nulla di costruttivo, anzi, la paura ci paralizza, ci autodistrugge. Siamo chiamati a riflettere per scoprire quale sia veramente la nostra idea di Dio. Già nell’Antico Testamento Egli si è rivelato come «Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà» (cf Es 34,6). E Gesù ci ha sempre mostrato che Dio non è un padrone severo e intollerante, ma un padre pieno di amore, di tenerezza, un padre pieno di bontà. Pertanto possiamo e dobbiamo avere un’immensa fiducia in Lui. La parabola, inoltre, mette in maggior risalto i buoni frutti portati dai discepoli che, felici per il dono ricevuto, non l’hanno tenuto nascosto con timore e gelosia, ma l’hanno fatto fruttificare, condividendolo, partecipandolo. Sì, ciò che Cristo ci ha donato si moltiplica donandolo! È un tesoro fatto per essere speso, investito, condiviso con tutti, come ci insegna quel grande amministratore dei talenti di Gesù che è l’apostolo Paolo.

Gesù, dunque, ci mostra la generosità e la premura del Padre in tanti modi: con la sua parola, con i suoi gesti, con la sua accoglienza verso tutti, specialmente verso i peccatori, i piccoli e i poveri; ma anche con i suoi ammonimenti, che rivelano il suo interesse perché noi non sprechiamo inutilmente la nostra vita. È segno infatti che Dio ha grande stima di noi: questa consapevolezza ci aiuta ad essere persone responsabili in ogni nostra azione. Pertanto, la parabola dei talenti ci richiama a una responsabilità personale e a una fedeltà che diventa anche capacità di rimetterci continuamente in cammino su strade nuove, senza “sotterrare il talento”, cioè i doni che Dio ci ha affidato, e di cui ci chiederà conto.

La Vergine Maria che, ricevendo il più prezioso tra i doni, Gesù stesso, lo ha offerto al mondo con immenso amore, ci aiuti ad essere servi buoni e fedeli alla volontà di Dio facendo fruttificare i talenti di cui ci ha dotato, perché possiamo prendere parte un giorno “alla gioia del nostro Signore”. Amen!

 

Commento al Vangelo della XXIV Domenica del Tempo Ordinario Anno A (17 settembre 2023)

La misericordia di Dio!

 Il brano evangelico di questa domenica ci offre un insegnamento sul perdono, che non nega il torto subito ma riconosce che l’essere umano, creato ad immagine di Dio, è sempre più grande del male che commette. San Pietro domanda a Gesù: «Se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». A Pietro sembra già il massimo perdonare sette volte a una stessa persona; e forse a noi sembra già molto farlo due volte. Ma Gesù risponde: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette», vale a dire sempre: tu devi perdonare sempre. E lo conferma raccontando la parabola del re misericordioso e del servo spietato, nella quale mostra l’incoerenza di colui che prima è stato perdonato e poi si rifiuta di perdonare.

Il re della parabola è un uomo generoso che, preso da compassione, condona un debito enorme – «diecimila talenti» (6.000.000.000 di euro) – a un servo che lo supplica. Ma quello stesso servo, appena incontra un altro servo come lui che gli deve cento denari (circa 3000 euro) – cioè molto meno -, si comporta in modo spietato, facendolo gettare in prigione. Quell’uomo non aveva capito quello che il suo re aveva fatto con lui e così si comportò egoisticamente. L’atteggiamento incoerente di questo servo è anche il nostro quando rifiutiamo il perdono ai nostri fratelli. Mentre il re della parabola è l’immagine di Dio che ci ama di un amore così ricco di misericordia da accoglierci, amarci e perdonarci continuamente.

Fin dal nostro Battesimo Dio ci ha perdonati, condonandoci un debito insolvibile: il peccato originale. Poi, con una misericordia senza limiti, Egli perdona tutte le nostre colpe non appena mostriamo anche solo un piccolo segno di pentimento. Dio è così: misericordioso. Quando siamo tentati di chiudere il nostro cuore a chi ci ha offeso e ci chiede scusa, ricordiamoci delle parole del Padre celeste al servo spietato: «Io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?». Chiunque abbia sperimentato la gioia, la pace e la libertà interiore che viene dall’essere perdonato può aprirsi alla possibilità di perdonare a sua volta.

Attraverso questa parabola Gesù ci invita al difficile gesto di pregare anche per coloro che ci fanno torto, ci hanno danneggiato, sapendo perdonare sempre, affinché la luce di Dio possa illuminare il loro cuore; e ci invita a vivere, nella nostra preghiera, lo stesso atteggiamento di misericordia e di amore che Dio ha nei nostri confronti. Nella preghiera del Padre Nostro, infatti, Gesù ha voluto inserire lo stesso insegnamento di questa parabola. Ha messo in relazione diretta il perdono che chiediamo a Dio con il perdono che dobbiamo concedere ai nostri fratelli: «Rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori» (cf Mt 6,12). Il perdono di Dio è il segno del suo straripante amore per ciascuno di noi; è l’amore che ci lascia liberi di allontanarci, come il figliol prodigo, ma che attende ogni giorno il nostro ritorno; è l’amore intraprendente del pastore per la pecora perduta; è la tenerezza che accoglie ogni peccatore che bussa alla sua porta. Il Padre celeste – nostro Padre – è pieno di amore e vuole offrircelo, ma non lo può fare se chiudiamo il nostro cuore all’amore per gli altri. Nella prima lettura l’autore sacro scrive: «non odiare il prossimo e dimentica gli errori altrui». Ciò significa che dobbiamo imparare a perdonare se vogliamo essere perdonati.

Gesù, dunque, con questo racconto ci comunica la certezza che, per quanto dure siano le prove, difficili i problemi, pesante la sofferenza, non cadremo mai fuori delle mani di Dio, quelle mani che ci hanno creato, ci sostengono e ci accompagnano nel cammino dell’esistenza, perché guidate da un amore infinito e fedele.

La Vergine Maria, Madre di misericordia, ci aiuti ad essere sempre più consapevoli della gratuità e della grandezza del perdono ricevuto da Dio, per diventare misericordiosi come Lui, Padre buono, lento all’ira e grande nell’amore. Amen!

 

Commento al Vangelo della XIX Domenica del Tempo Ordinario Anno C (7 agosto 2022)

Vegliate e tenetevi pronti!

«Non temere, piccolo gregge»! Le parole di Gesù con cui si apre il vangelo odierno, sono un invito alla fiducia. Oggi nel mondo c’è tanta cattiveria, falsità, egoismo, ipocrisia e, spesso, il vero cristiano è sfiduciato. Però, questa espressione del Signore significa: «State tranquilli, non spaventatevi, non vi amareggiate, fidatevi di Dio e certamente non ve ne pentirete perché lasciando tutto per Dio, facendo la sua volontà e obbedendo ai suoi comandi, riceverete il centuplo e la vita eterna». E allora, anche quando la Chiesa è perseguitata, quando la fede è derisa, restiamo con Cristo e lasciamoci guidare da Lui. Pensiamo per un momento al martirio di santo Stefano: un giovane circondato dall’odio di un tribunale, non si lascia piegare, intimorire. Egli sa quel che rischia. Egli vede i sassi già pronti per l’esecuzione. Eppure è deciso e resta fedele a Cristo. Per lui la vita conta solo se vissuta per Cristo e quindi non esita a perderla perché sa che il Signore gli darà in premio la vita eterna. Paolo vede, assiste e, certamente, disprezza Stefano. Ma un giorno Paolo scriverà: «Ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore. Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura, per guadagnare Cristo» (cf Fil 3, 8).

Il vero discepolo, dice Gesù, è colui che non accumula tesori su questa terra: «Vendete ciò che possedete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro sicuro nei cieli, dove il ladro non arriva e tarlo non consuma. Perché, dov’è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore».

La vita è preziosa, si accorcia ogni giorno di più e, perciò, non va sciupata, ma vissuta con la maggiore intensità possibile ricordandoci sempre che se Gesù è il nostro vero tesoro, colui per il quale vale addirittura la pena di perdere la vita (cf Lc 9, 24), saremo anche capaci di orientare tutta l’esistenza verso la sua venuta alla fine dei tempi. La verità più bella del cristianesimo è che la vita non è la festa, ma l’attesa della festa. Noi cristiani siamo infatti per definizione coloro che vivono «con sobrietà, con giustizia e con pietà, nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo» (cf Tit 2, 13), «coloro che hanno atteso con amore la sua manifestazione» (cf 2Tm 4, 8). Il brano del vangelo ci invita, inoltre, all’attesa vigilante, per non essere impreparati quando il Signore viene a bussare alla nostra porta: «Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese; siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli aprano subito». A questo mandato egli unisce una promessa: «Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli». Per chi lo attende con perseveranza il Signore ripeterà i gesti compiuti nell’ultima cena, quando si è fatto servo dei suoi discepoli e ha detto loro: «Chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve» (cf Lc 22, 27). Sì, dobbiamo sempre essere ben desti, perché il Signore Gesù, il Figlio dell’uomo, verrà nell’ora che non pensiamo, come un ladro nella notte; per chi avrà saputo attenderlo – «e se, giungendo nel bel mezzo della notte o prima dell’alba, li troverà così, beati loro!» – si compirà allora la sua parola: «Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove e io preparo per voi un regno, come il Padre mio l’ha preparato per me, perché mangiate e beviate alla mia mensa nel mio regno» (cf Lc 22 28-30).

Infine, sollecitato da Pietro: «Signore, questa parabola la dici per noi o anche per tutti?», Gesù trae alcune conseguenze delle sue parole per quanti nella comunità hanno responsabilità di guida, responsabilità «pastorali». Gesù, infatti, attraverso le sue parole che valgono per tutti, vuol far capire che il favoritismo appartiene alla terra e non al cielo. È vero che tutti siamo invitati a vigilare, però è anche vero che il Signore, il «Pastore supremo» (cf 1Pt 5, 4), ha affidato ad alcuni il compito di essere amministratori fedeli e sapienti, incaricandoli di dare «la razione di cibo a tempo debito» ai con-servi. Ebbene costoro, cioè i pastori della chiesa, sappiano di essere chiamati a svolgere il loro ministero quali «servi di Cristo e amministratori dei misteri di Dio» (cf 1Cor 4, 1). Se questi servi saranno trovati intenti al loro servizio «beati loro», perché di percosse ne riceveranno poche; se invece, per l’affievolirsi dell’attesa del Signore, cederanno alla tentazione di spadroneggiare sul gregge loro affidato (cf 1Pt 5, 3), saranno puniti con severità poiché non potranno dire di non essere stati avvertiti: «Il servo che, conoscendo la volontà del padrone, non avrà disposto o agito secondo la sua volontà, riceverà molte percosse».

Il piccolo gregge della chiesa non deve temere nulla dall’esterno: l’unica minaccia seria può venirgli da se stesso, dalla sua incapacità di amare il Signore Gesù e di tenersi pronto alla sua venuta nella gloria. È questa attesa vigilante che dà senso alla nostra vita e ispira il nostro comportamento quotidiano. Lo aveva ben capito san Basilio, il quale scriveva: «Che cosa è proprio del cristiano? Vigilare costantemente ed essere sempre pronto a compiere ciò che è gradito a Dio, sapendo che nell’ora che non pensiamo il Signore viene».

Chiediamo a Dio Padre che arda nei nostri cuori la stessa fede che spinse Abramo a vivere sulla terra come pellegrino, e che non si spenga la nostra lampada, perché vigilanti nell’attesa della sua ora siamo introdotti da lui nella patria eterna. Amen.

Commento al Vangelo della VI Domenica di Pasqua Anno B (9 maggio 2021)

Dio si conosce amando

 Nelle letture di questa domenica è evidente e centrale il tema dell’amore. Questo, che è un argomento ricorrente nella prima Lettera di Giovanni, lo è anche nel brano del Vangelo dello stesso Giovanni che ci viene proposto oggi.

Giovanni, nella sua Lettera (seconda lettura) rivela che Dio è Amore. Tra le tante definizioni di Dio (essere perfettissimo, motore immobile, colui che è…), questa è certamente la più singolare e consolante. Dio non è responsabile del male che c’è nel mondo, Dio non manda i terremoti e le inondazioni, così come noi non siamo consegnati a un destino cieco e senza speranza, perché Dio è Amore e ci ama. «Dio non fa preferenza di persone» (prima lettura). Giovanni precisa che «Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore». Questa affermazione significa che se non siamo capaci di amare coloro che ci offendono, vuol dire che non abbiamo la carità di Dio e quindi non conosciamo Dio; se non siamo capaci di generosità senza aspettare ricompense, vuol dire che non abbiamo la carità di Dio e quindi siamo fuori della vita eterna; se non ci preoccupiamo di dare al prossimo  il nostro tempo, la nostra attenzione, il nostro affetto, il nostro servizio, noi non abbiamo carità e quindi nell’anima siamo già morti perché «chi non ama rimane nella morte» (cf 1Gv 3,14). Per questo solo chi ama può conoscere Dio perché lui ci ha amati per primo, di un amore senza misura, donandoci suo Figlio che si è offerto come «vittima di espiazione per i nostri peccati». Il cristianesimo, infatti, è annuncio di carità, di amore. La preghiera, la messa, l’eucaristia, l’adorazione, il rosario devono servire a farci crescere nella carità. Se tutto ciò non ci fa crescere nella carità non sono incontri con Dio, perché Dio è carità, è Amore e chi incontra Dio, necessariamente cresce nella carità. Santa madre Teresa di Calcutta diceva: «Se vedrete Dio nel prossimo riuscirete ad amare come Dio ama voi».

Nel Vangelo l’amore di Dio si manifesta nel suo Figlio Gesù. Egli infatti dice: «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore». Ogni cristiano è invitato a entrare in questo vortice d’amore. Dal momento che tra Padre e Figlio c’è amore condiviso e il Figlio ama noi, noi possiamo e dobbiamo sentirci coinvolti. Non solo: se il Padre ama il Figlio e il Figlio ci ama, anche noi dobbiamo amarci l’un l’altro.

Gesù inoltre dice: «Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena». Ma cosa è la gioia? La gioia nasce dall’amore, dal sentirsi amati e dall’amare a nostra volta. Senza l’amore, a che serve esistere? Senza l’amore quale sarebbe lo scopo della nostra vita?

Inoltre, annota l’evangelista, che Gesù dice: «Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore […] Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi». Gesù ha riassunto tutti i comandamenti nell’amore e ha proposto come pietra di paragone il buon samaritano, cioè uno che ama anche chi non è della sua famiglia, della sua terra, della sua razza. Uno che ama senza attendersi nulla.

Gesù aggiunge: «Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi». Ancora una volta si parla di amore e di amore di amicizia. Spesso pensiamo che l’amore di amicizia sia meno profondo e vero, meno importante. Quello che noi chiamiamo amore spesso è vestito di istinto e infatuazione. L’amicizia vera, invece, nasce spesso da un amore più raffinato e alto; genera rapporti di libertà, di rispetto, di condivisione. Ogni amore genuino dovrebbe colorarsi di amicizia per diventare più autentico e profondo, anche nel rapporto di coppia, anche in quello tra le persone di una stessa famiglia.  

«Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici». Gesù sicuramente sta pensando a se stesso, che tra breve si consegnerà alle sofferenze più atroci per dimostrare il suo amore senza misura. L’amore vero è quello che costa, non è solo qualcosa di romantico e di poetico. L’amore vero, a volte, chiede anche il sacrificio e il martirio: «Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri» (cf Gv 13,34).

Inoltre ai suoi apostoli il Maestro Divino dice: «tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda». Perché questa affermazione? Perché Dio ci ama e ci è amico. E dire di no ad un amico vero è difficile!

Il brano del Vangelo conclude con un comando di Gesù: «Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri». Ma l’amore può essere comandato? Sì. Perché esprime e arricchisce la nostra personalità. Perché l’amore è il valore più alto dal quale dipendono tutti gli altri, perché l’amore è presenza di Dio.

Il santo vescovo Agostino diceva: «Si possono avere tutti i sacramenti ed essere cattivi, ma non si può avere la carità ed essere cattivi».

Ebbene, noi possiamo attingere da questa carità, da questo amore, la forza per amare a nostra volta Dio, il prossimo, il coniuge, e per ottenere il perdono, ogni volta che abbiamo mancato di farlo. Amen.

Commento al Vangelo della II Domenica del Tempo Ordinario Anno B (17 gennaio 2021)

Lasciamoci fissare da Gesù, l’Agnello di Dio!

La prima lettura ha per centro la chiamata di Samuele. Samuele serviva il Signore alla presenza di Eli e ancora il suo rapporto con Dio è soltanto un’abitudine, un’educazione religiosa ricevuta. Ma viene il momento decisivo per il giovane Samuele quando, scrive l’autore sacro, alla quarta chiamata di Dio: «Samuele, Samuele!», egli finalmente risponde senza indugio, dicendo: «Parla, perché il tuo servo ti ascolta». In questa disponibilità c’è tutta la grandezza di Samuele poiché egli ha capito che colui che lo stava chiamando era Dio. Oggi, purtroppo, non riusciamo a sentire la voce di Dio che ci chiama perché siamo storditi dal chiasso che ci circonda. Impariamo a fare silenzio dentro di noi e, come il giovane Samuele, rispondiamo prontamente alla chiamata del Signore che passa.

L’apostolo Giovanni, infatti, scrive che: «Gesù passava…». Dio passa accanto a ciascuno di noi! Possiamo non sentirlo, non vederlo, non credere in lui e non amarlo, ma: Dio passa accanto a noi continuamente. È scritto nel libro dell’Apocalisse: «Ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (cf Ap 3,20). Cristo infatti è Dio tra noi. Ma come riconoscerlo?

L’evangelista annota che Giovanni il Battista, appena vede Gesù, lo fissa, lo riconosce e grida: «Ecco l’Agnello di Dio!». Che significa questa esclamazione? Significa che Cristo Gesù è colui che prende su di sé i peccati del mondo al fine di perdonarli; significa che Cristo Gesù è colui che ha annunciato il grande amore e l’infinita misericordia che Dio ha per noi.

Dopo l’atto di fede del Battista, «i suoi due discepoli seguirono Gesù». E Gesù, scrive Giovanni, voltandosi e «osservando che essi lo seguivano, disse loro: “Che cosa cercate?”». Queste parole pronunciate dal Maestro Divino sono rivolte anche a noi: che cosa cerchiamo mettendoci dietro a Gesù? Per ogni cristiano questa domanda è essenziale perché ci aiuta a comprendere che seguire l’«Agnello di Dio» non significa essere dei soldati dietro a Gesù, ma discepoli che vivono nell’amore di colui che sulla croce è morto come Agnello pasquale. Seguire Gesù significa crescere ogni giorno nella fede. Samuele cerca di capire la voce di Dio, i due discepoli cercano di conoscere il Messia-Agnello. Se c’è risposta alla parola che chiama, avviene un mutamento radicale di vita; se questo cambiamento non avviene, vuol dire che ancora non abbiamo incontrato il Signore, non gli abbiamo dato la nostra risposta generosa.

Pero, annota l’evangelista, alla domanda di Gesù i due discepoli di Giovanni rispondono con un’altra domanda: «Rabbì, dove dimori?». Ai due discepoli che lo interrogano Gesù risponde: «Venite e vedrete». I discepoli andarono e rimasero con lui per quel giorno. Quel momento divenne così decisivo per la loro vita che ricordano perfino l’ora in cui avvenne: «erano circa le quattro del pomeriggio».

I due discepoli del Battista sono ormai divenuti discepoli di Gesù e, uno di loro, Andrea, annuncia la sua nuova sequela al fratello Simone, con parole che costituiscono una vera e propria confessione di fede: «Abbiamo trovato il Messia». Egli poi conduce il fratello a Gesù che, fissandolo con lo sguardo gli dice: «Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; sarai chiamato Cefa» che significa Pietro, roccia di saldezza.

Ebbene, Gesù fissa lo sguardo su Simone, come lo fissa su ognuno di noi. Non abbiamo paura di questo sguardo, anche se può apparirci esigente. È uno sguardo di predilezione, di scelta, di amore. Non abbassiamo gli occhi di fronte a questo sguardo. Gesù fisserà lo sguardo di Pietro anche dopo il triplice rinnegamento: era uno sguardo di rimprovero, sì, ma soprattutto di perdono. Lasciamoci fissare da Gesù e fissiamo il nostro sguardo su di lui per comprendere la sua volontà. Dinanzi allo sguardo del nostro Salvatore ripetiamo il nostro impegno di adesione piena a lui, di fedeltà al vangelo. Le nostre chiese, dinanzi allo sguardo di Gesù, non si sottraggano, ma comprendano il peccato delle loro divisioni e continuino o riprendano il cammino verso la riconciliazione, verso l’unità, perché il mondo creda nel Padre e in colui che egli ha inviato, Cristo Gesù, nostra unica salvezza.

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