Commento al Vangelo della XXIV Domenica del Tempo Ordinario Anno A (17 settembre 2023)

La misericordia di Dio!

 Il brano evangelico di questa domenica ci offre un insegnamento sul perdono, che non nega il torto subito ma riconosce che l’essere umano, creato ad immagine di Dio, è sempre più grande del male che commette. San Pietro domanda a Gesù: «Se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». A Pietro sembra già il massimo perdonare sette volte a una stessa persona; e forse a noi sembra già molto farlo due volte. Ma Gesù risponde: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette», vale a dire sempre: tu devi perdonare sempre. E lo conferma raccontando la parabola del re misericordioso e del servo spietato, nella quale mostra l’incoerenza di colui che prima è stato perdonato e poi si rifiuta di perdonare.

Il re della parabola è un uomo generoso che, preso da compassione, condona un debito enorme – «diecimila talenti» (6.000.000.000 di euro) – a un servo che lo supplica. Ma quello stesso servo, appena incontra un altro servo come lui che gli deve cento denari (circa 3000 euro) – cioè molto meno -, si comporta in modo spietato, facendolo gettare in prigione. Quell’uomo non aveva capito quello che il suo re aveva fatto con lui e così si comportò egoisticamente. L’atteggiamento incoerente di questo servo è anche il nostro quando rifiutiamo il perdono ai nostri fratelli. Mentre il re della parabola è l’immagine di Dio che ci ama di un amore così ricco di misericordia da accoglierci, amarci e perdonarci continuamente.

Fin dal nostro Battesimo Dio ci ha perdonati, condonandoci un debito insolvibile: il peccato originale. Poi, con una misericordia senza limiti, Egli perdona tutte le nostre colpe non appena mostriamo anche solo un piccolo segno di pentimento. Dio è così: misericordioso. Quando siamo tentati di chiudere il nostro cuore a chi ci ha offeso e ci chiede scusa, ricordiamoci delle parole del Padre celeste al servo spietato: «Io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?». Chiunque abbia sperimentato la gioia, la pace e la libertà interiore che viene dall’essere perdonato può aprirsi alla possibilità di perdonare a sua volta.

Attraverso questa parabola Gesù ci invita al difficile gesto di pregare anche per coloro che ci fanno torto, ci hanno danneggiato, sapendo perdonare sempre, affinché la luce di Dio possa illuminare il loro cuore; e ci invita a vivere, nella nostra preghiera, lo stesso atteggiamento di misericordia e di amore che Dio ha nei nostri confronti. Nella preghiera del Padre Nostro, infatti, Gesù ha voluto inserire lo stesso insegnamento di questa parabola. Ha messo in relazione diretta il perdono che chiediamo a Dio con il perdono che dobbiamo concedere ai nostri fratelli: «Rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori» (cf Mt 6,12). Il perdono di Dio è il segno del suo straripante amore per ciascuno di noi; è l’amore che ci lascia liberi di allontanarci, come il figliol prodigo, ma che attende ogni giorno il nostro ritorno; è l’amore intraprendente del pastore per la pecora perduta; è la tenerezza che accoglie ogni peccatore che bussa alla sua porta. Il Padre celeste – nostro Padre – è pieno di amore e vuole offrircelo, ma non lo può fare se chiudiamo il nostro cuore all’amore per gli altri. Nella prima lettura l’autore sacro scrive: «non odiare il prossimo e dimentica gli errori altrui». Ciò significa che dobbiamo imparare a perdonare se vogliamo essere perdonati.

Gesù, dunque, con questo racconto ci comunica la certezza che, per quanto dure siano le prove, difficili i problemi, pesante la sofferenza, non cadremo mai fuori delle mani di Dio, quelle mani che ci hanno creato, ci sostengono e ci accompagnano nel cammino dell’esistenza, perché guidate da un amore infinito e fedele.

La Vergine Maria, Madre di misericordia, ci aiuti ad essere sempre più consapevoli della gratuità e della grandezza del perdono ricevuto da Dio, per diventare misericordiosi come Lui, Padre buono, lento all’ira e grande nell’amore. Amen!

 

Commento al Vangelo della XXX Domenica del Tempo Ordinario Anno C (23 ottobre 2022)

O Dio, abbi pietà di me peccatore!

Nel Vangelo di questa domenica Luca scrive che «Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri». L’annotazione con cui si apre questo brano tocca ciascuno di noi: siamo infatti sempre tentati di sentirci giusti, di giustificare ogni nostro comportamento. La via più breve per giungere a questo scopo consiste nel condannare gli errori altrui. Noi guardiamo sempre la pagliuzza che è nell’occhio del fratello e non ci accorgiamo della trave che è nel nostro occhio (cf Lc 6, 41). In questo modo finiamo per essere ciechi davanti ai nostri errori. Nessuno di noi di fronte a Dio può ritenersi giusto e nessuno può avere il diritto di disprezzare il prossimo. Il perdono, la misericordia e la salvezza, sono doni che Dio fa a tutti coloro che si presentano a lui e pregano con umiltà.

Noi ogni domenica partecipiamo alla santa Eucaristia: come torniamo a casa? Uguali a prima? Giustificati? O con un peccato in più? La parabola di oggi parla di «due uomini (che) salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano». A prima vista la contrapposizione non può essere più netta: da una parte troviamo il fariseo, un «uomo religioso», stimato come persona pia ed esemplare; dall’altra il pubblicano, colui che svolge il mestiere – impuro per gli ebrei – dell’ingiusto appaltatore di tasse, la figura tipica del peccatore pubblico, riconosciuto tale da tutti. Entrambi salgono al tempio per entrare in comunione con Dio, ma le loro preghiere sono agli antipodi. Questi due uomini, se vogliamo, sono la personificazione di due possibilità che sono sempre davanti a noi: anche noi possiamo essere farisei! Anche noi possiamo essere pubblicani! Gesù, infatti, con questa parabola mette in guardia proprio i credenti, i religiosi, coloro che vanno al tempio. In altre parole: noi!

Notiamo subito un particolare: il fariseo sta in piedi, nella posizione di chi è sicuro di sé si rivolge a Dio, in una sorta di monologo, dicendo: «O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo». Questa preghiera è un’offesa a Dio. Perché? Perché è una preghiera atea. Il fariseo a parole si rivolge all’Onnipotente, ma di fatto egli lo esclude, non gli serve. Sostituisce il suo «io» a «Dio» e rende grazie non per ciò che Dio, nel suo amore fedele, ha fatto per lui, ma per ciò che lui stesso ha compiuto per Dio! Quest’uomo è pieno di sé, ha la presunzione di essere in regola in tutto. Egli compie opere buone che, però, non hanno nessun valore perché partono da un cuore orgoglioso e presuntuoso. Le opere che fa sono al servizio del suo orgoglio. Egli non prega Dio, ma contempla vanitosamente se stesso. Ed ecco la conseguenza terribile, una conseguenza che spesso si ritrova nella vita di tanta gente: l’orgoglio lo porta al disprezzo degli altri, al disprezzo dei fratelli. E il disprezzo degli altri, noi sappiamo che è peccato. Egli, infatti, vede in fondo al tempio il pubblicano, ma non avverte per lui nessun sentimento di compassione: neppure lontanamente pensa a tendergli la mano. Ci mancherebbe: correrebbe il rischio di sporcarla! Il fariseo non ama nessuno all’infuori di se stesso. A lui gli altri servono soltanto come paragone per innalzare se stesso. Purtroppo tanta gente si comporta così!

Chi prega Dio e non ama il prossimo, ha sbagliato tutto: chi prega come il fariseo, esce dal tempio senza aver incontrato Dio. Quante persone dicono: «Non rubo, non uccido, non critico etc.». Va bene, ma non basta questo per avere la coscienza a posto. La vera preghiera è quando noi iniziamo a non pensare più a «noi stessi» ma al prossimo. Che cosa facciamo per gli altri? E se facciamo qualcosa ci piace metterci in mostra ed essere elogiati o rimanere nel nascondimento? Non dimentichiamo il monito di Gesù: «non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra» (cf Mt 6, 1-4)! La preghiera, dunque, quando è vera, accende nel cuore il fuoco della carità, dell’amore. Quando preghiamo, infatti, ci accostiamo a Dio e veniamo contagiati dall’Amore! Se ciò non accade vuol dire che non sappiamo o non vogliamo pregare.

Gesù continua dicendo che «il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”». I suoi peccati manifesti lo rendono oggetto di scherno da parte di tutti; per questo egli è andato al tempio con la coscienza, resa più bruciante dal giudizio altrui, di essere un peccatore. Quest’uomo non osa avvicinarsi al Santo dei santi, là dove c’è la presenza di Dio: non ha nulla da vantare, ma sa che può implorare misericordia da parte del Dio tre volte Santo. Egli prova lo stesso sentimento di Pietro di fronte alla santità di Gesù: «Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore» (cf Lc 5, 8). Ecco perché la preghiera: «O Dio, abbi pietà di me peccatore» è quella che meglio esprime la nostra condizione: siamo chiamati a riconoscere le nostre cadute e ad accettare che Dio le ricopra con la sua inesauribile misericordia, l’unica cosa veramente necessaria nella nostra vita.

Significativa è la conclusione di Gesù: il pubblicano «a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato». Il pubblicano, infatti, prega presentandosi a Dio con grande realismo, accettando di essere conosciuto da lui per ciò che egli è: un peccatore bisognoso di misericordia. Il pubblicano, dunque, è veramente pentito e uscendo dal tempio sarà un uomo nuovo, un uomo che non disprezzerà il fratello, un uomo che non avrà presunzione, né arroganza. Costui, che si batte il petto e chiede pietà, sa di essere stato perdonato e sarà felice quando potrà perdonare qualcuno: la preghiera l’ha trasformato profondamente.

Applichiamo a noi questa parabola: visti dal di fuori sembriamo buoni, ma visti dal di dentro, come siamo davanti a Dio?

Il pubblicano ci indica la strada della salvezza: mettiamoci in ginocchio insieme con lui, battiamoci il petto perché solo chi ha «un cuore contrito e affranto» (cf Sal 51, 19) può rivolgersi a Dio sapendo di essere ascoltato e perdonato!

Il Signore e il peccato

“Ti capita spesso di cercare il Signore per discutere dei tuoi peccati. Ma i tuoi peccati non Gli interessano. Non fissare il tuo peccato, guarda piuttosto il Suo Volto beato o alla ferita del Suo costato. Guarda le Sue ferite e riceverai da esse quei flussi di grazia che guariranno le tue ferite ed esse diventeranno frutti maturi della Sua Misericordia in te.
Il Signore non nega il peccato; ne conosce l’orrore e bruttezza. Perciò ti invita di stare lontano da esso, come si sta lontano dal precipizio. Prega! La preghiera possiede proprietà medicinali ed è un rimedio Divino contro il peccato. Nella preghiera troverai la forza e la difesa di cui hai bisogno. Il tempo trascorso con il Signore, nella preghiera, consente al tuo cuore di adattarsi allo splendore del Suo Volto glorioso”.

Commento al Vangelo della VI Domenica di Pasqua Anno C (22 maggio 2022)

Lo Spirito Santo vi insegnerà ogni cosa

Dopo aver consegnato il comandamento nuovo (vangelo di domenica scorsa), Gesù ha annunciato il suo esodo da questo mondo al Padre, ma ciò suscita domande tra i discepoli: Pietro, Tommaso, Filippo e infine Giuda, «non l’Iscariota», gli chiedono di spiegare meglio le sue parole (cf Gv 13, 36; 14, 22). In particolare, la domanda di Giuda è quella che abita anche i nostri cuori di credenti: «Signore, perché tu ti manifesti a noi credenti e non ti manifesti pubblicamente al mondo, a tutti gli uomini?». Anche se abbiamo fede in Gesù, restiamo incapaci di assumere le conseguenze del nostro credere, del nostro aderire a lui, e così ci chiediamo: perché egli non ha compiuto segni, prodigi, azioni straordinarie, in modo da convincere tutti gli uomini? Perché ha scelto l’umiltà, la piccolezza, uno stile di voluto nascondimento? Perché non ha cercato il consenso, servendosi dei mezzi a lui disponibili per ottenere successo? Questa ottica è la stessa dei fratelli di Gesù, i quali lo avevano invitato a manifestarsi al mondo, in modo da costringere gli uomini a credere in lui mediante l’evidenza dello straordinario (cf Gv 7, 4).

Ma Gesù delude chi ragiona in questi termini, e ribadisce che ciò che conta non è l’ampiezza del «consenso», non è la quantità dei «conquistati»; no, l’importante è che vi sia un rapporto personale d’amore nei confronti di Gesù, non l’ammirazione che si può nutrire per un taumaturgo, per un operatore di miracoli. Infatti l’evangelista Giovanni annota che Gesù dice: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui». Ciò che è decisivo, quindi, è il rapporto di conoscenza e di amore tra il credente divenuto discepolo e Gesù, «il Signore e il Maestro» (cf Gv 13, 14): in questo modo il credente diviene addirittura dimora di Gesù e del Padre! Ebbene, facciamo l’esame di coscienza e chiediamoci: noi amiamo realmente il Signore? Abbiamo fede in lui? Osserviamo la sua parola? Purtroppo la nostra fede è fragile e molte volte anziché affidarci e fidarci di Gesù confidiamo negli uomini. La prima lettura, infatti, ci insegna che il più delle volte ci attacchiamo alle cose marginali, esteriori, dimenticando l’essenziale.

Per comprendere meglio facciamo alcuni esempi: la presenza a messa. Venire in chiesa e partecipare alla santa messa è importante, ma più importante è la conversione della vita: dobbiamo partecipare alla celebrazione eucaristica per cambiare, per migliorare, per crescere nel Battesimo, ossia nella fede. Eppure quanti si preoccupano di adempiere al precetto di venire in chiesa, santificare le feste, ma non si preoccupano del cambiamento della vita! A che serve essere stati a messa, se siamo stati presenti come statue fredde, che non accolgono e non ricevono nessun messaggio? La confessione: accusare i propri peccati è cosa buona, perché non solo riconosciamo la nostra fragilità ma anche perché chiediamo perdono al Signore. Ciò che è importante, dunque, nel sacramento della riconciliazione è sì l’accusa delle colpe, ma più importante è il pentimento del cuore. Eppure quanti credono di essersi confessati bene, solo perché hanno detto i loro peccati! Non basta! Ci vuole il pentimento sincero dei peccati affinché la confessione sia di giovamento per la nostra anima. La comunione: ricevere il Corpo di Cristo è importante, ma se noi ci nutriamo del santissimo Corpo del Signore e il nostro cuore è chiuso all’amore, alla carità, a cosa serve fare la comunione? Se nel nostro cuore c’è superbia, arroganza, rancore, cattiveria, con quale stato d’animo ci nutriamo del Corpo di Cristo? Questi esempi ci devono far riflettere ad essere vigilanti, attenti e pronti a verificare continuamente la nostra vita cristiana.

Però, se da una parte sentiamo il peso della nostra fragilità, dall’altra Cristo ci conforta con la certezza di una presenza: «Il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che vi ho detto». Ciò significa che durante l’assenza fisica del Signore dovuta al suo dimorare presso il Padre, vi è da parte dell’Onnipotente stesso un grande dono: lo Spirito Santo, colui che ha funzione di Consolatore, di difensore, di «chiamato accanto» al credente. Lo Spirito ricorda tutto ciò che Gesù ha detto e fatto, rendendolo presente nella sua comunità e svolgendo la funzione di «Maestro interiore» – come lo chiama sant’Agostino – capace di illuminare e guidare la vita di ogni cristiano. Nel corso della vita terrena di Gesù, i discepoli avevano il suo insegnamento diretto, ma spesso non lo capivano perché il loro cuore non era in grado di accogliere le sue parole. Ma quando lo Spirito sarà presente nel cuore dei discepoli, allora scomparirà il «cuore indurito» (cf Mc 16, 14), perché il Maestro interiore renderà «il cuore capace di ascolto» (cf 1Re 3, 9), renderà il cristiano, il credente, capace di realizzare le parole di Gesù.

Il cristiano, dunque, non è mai solo, ma grazie allo Spirito Santo è dimora, casa, tempio della Presenza di Dio (cf 1Cor 3, 16; 6, 19). È lo Spirito Santo che ci rende consapevoli del dono lasciatoci da Gesù: la sua pace: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi». La pace di cui parla Cristo è completamente diversa dalla pace del mondo: la pace di cui parla Gesù resiste al dolore, alle prove, alle umiliazioni, alle privazioni di ogni genere. La pace del mondo, invece, è soltanto tregua; spesso frutto di paura e compromesso.

Preghiamo Dio onnipotente affinché mandi il suo Santo Spirito a rinnovare la faccia della terra e ci renda capaci di testimoniare con la parola e con le opere tutto quello che Cristo, suo Figlio, ha fatto e insegnato.

Commento al Vangelo della V Domenica di Quaresima Anno C (3 aprile 2022)

Va’ e d’ora in poi non peccare più

In questa ultima domenica di Quaresima la liturgia della parola ci propone il suggestivo brano evangelico della peccatrice. Notiamo che Gesù non scusa l’adultera, ma la perdona, perché nel perdono c’è la pienezza dell’amore, della misericordia. La misericordia, capace di ricreare l’uomo e di riaprire un futuro a chi non ha più alcuna speranza, può spingerci alla conversione dei nostri pensieri e delle nostre azioni.

Ebbene, la scena del Vangelo ci racconta che una donna viene trovata con un uomo che non era il proprio marito. Certamente il peccato è grave! Un peccato evidente, veniva punito con la morte secondo la legge di Mosè. La cattiveria degli scribi e dei farisei è subdola, infatti utilizzano una donna come strumento per far cadere Gesù in trappola.

Orbene, l’evangelista scrive che «[Gesù] al mattino si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui. Ed egli sedette e si mise a insegnare loro. Allora gli scribi e i farisei gli condussero una donna sorpresa in adulterio, la posero in mezzo e gli dissero: “Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?”». Il loro ricorso alla Legge è corretto (cf Lv 20, 10; Dt 22, 22-24), ma il loro cuore è abitato da odio e da intenzioni cattive: infatti «tentano» ossia mettono alla prova Gesù per trovare una contraddizione tra lui e la Legge di Dio, in modo da poterlo condannare.

Essi attendono una risposta, ma Gesù si limita a scrivere col dito per terra finché, incalzato con insistenza, esclama: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei». Gesù, dunque, non si mette in contrasto con la Legge, anzi invita gli accusatori a procedere alla lapidazione. Ma chi di noi è senza peccato? Chi può scagliare la pietra? Siamo molto abili a nascondere con cura i nostri peccati e molto bravi a scagliarci contro chi è costretto a mostrarli pubblicamente. Accusiamo giudicando gli altri e non guardiamo le nostre debolezze. Tutti siamo peccatori, tutti siamo bisognosi della misericordia di Dio! Solo Gesù, essendo senza peccato, poteva scagliare una pietra, ma non lo fa. L’evangelista annota dicendo che: «chinatosi di nuovo, scriveva per terra». Possiamo immaginare che, prima di chinarsi di nuovo a scrivere, abbia guardato bene in faccia i più anziani, che magari erano in prima fila.

Per due volte l’evangelista nota che Gesù scrive col dito per terra. L’ha ritenuto un gesto significativo, ma non dice cosa scrivesse e noi non lo sapremo mai. I commentatori danno varie spiegazioni del gesto: scrive i peccati degli accusatori?; scrive nella polvere i nomi degli accusatori?.

Allora, prosegue l’evangelista: «Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani. Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo». Sant’Agostino commenta dicendo: «Rimasero solo loro due, la misera e la misericordia».

Ed ecco la straordinaria conclusione del racconto: «Allora Gesù si alzò e le disse: “Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?”. Ed ella rispose: “Nessuno, Signore”. E Gesù disse: “Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più». Chiamato a scegliere tra la Legge e la misericordia, Gesù sceglie la misericordia senza mettersi contro la Legge, perché sa distinguere il peccato dal peccatore. La Legge è essenziale per indicare il peccato; ma una volta infranta la Legge, di fronte al peccatore concreto deve regnare la misericordia! Nessuna condanna, solo misericordia: qui sta l’unicità di Gesù, rispetto all’Antico Testamento. Il Signore, infatti, tende la mano alla peccatrice per sottrarla all’umiliazione del peccato e darle la possibilità di rinascere a una nuova vita.

Questo è il messaggio del Vangelo: la misericordia di Dio cancella ogni peccato! Ogni volta che ci riconosciamo peccatori, sperimentiamo la misericordia del Padre nostro che è nei cieli.

Ci riconosciamo peccatori davanti al Signore? Abbiamo l’umiltà di accostarci al sacramento della Riconciliazione? Siamo capaci di usare misericordia nei confronti degli altri? Siamo pronti a perdonare anziché condannare e giudicare?

In mezzo a tanto egoismo che regna nel mondo, chiediamo al Signore che ci aiuti ad essere misericordiosi verso i nostri fratelli.

Commento al Vangelo della II Domenica di Pasqua Anno B (11 aprile 2021)

Crediamo davvero in Dio?

In questa seconda Domenica di Pasqua, detta Domenica della Divina Misericordia, il Vangelo ci narra di due apparizioni di Cristo avvenute tutte e due nel cenacolo. Nella prima non era presente l’apostolo Tommaso. Quando gli altri gli narrano l’accaduto, egli se ne uscì con la ben nota dichiarazione: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo».

Prima di raccontare a Tommaso della visita del Maestro Risorto, l’evangelista narra che «La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: “Pace a voi!”. Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco». Gesù, dunque, si presenta improvvisamente. Era una visita inattesa e quasi imprevista per loro. Gesù saluta i suoi amici, saluta coloro che avevano condiviso con lui tre anni di vita.

Gesù, annota l’evangelista, continua dicendo: «Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi. Detto questo, soffiò e disse loro: “Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati”». Ebbene, il Risorto comunica loro lo Spirito Santo e li abilita all’unica missione veramente essenziale: rimettere i peccati, perdonare in nome di Dio, riconciliare tutti gli uomini.

Gesù sa bene che l’essere umano ha peccato, sa che l’essere umano dubita, sa che l’essere umano tradisce, sa – purtroppo – che l’essere umano spesso si vergogna di lui… Gesù sa tutte queste cose perché conosce cosa c’è nel cuore dell’uomo. E allora in questo ordine «perdonate» è delineato il volto misericordioso del Padre: «Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi» (cf Mt 6,14). Oltre al volto misericordioso di Dio è delineato anche il volto della Chiesa in cammino: la Chiesa terrena non sarà mai una comunità di perfetti, non sarà mai una famiglia di soli santi, ma sarà un luogo di perdono, ossia la casa del perdono perché il perdono è il primo frutto della carità, è il segno della presenza di Dio-Carità, Dio-Amore dentro di noi e in mezzo a noi.

Ebbene, ritornando a Tommaso, poiché egli non era presente a questo primo incontro di Gesù, non crede alla parola dei suoi amici, non si fida. Non è convinto della loro testimonianza. È incredulo. Tommaso vuole avere un rapporto immediato e diretto con il Signore

Quante volte anche noi ci comportiamo come Tommaso! Quante volte dubitiamo di Dio! Quante volte mettiamo in dubbio la sua esistenza! Quante volte dubitiamo del suo amore per noi!

Orbene, Giovanni scrive che «Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso». A questo apostolo che ha avuto un atteggiamento incredulo e che ora si trova davanti al Risorto, Gesù lo invita a contemplarlo attraverso i segni della passione e della morte dicendogli: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». Tommaso, colui che non aveva creduto, colui che aveva diffidato, non osa toccare il Risorto ma si inginocchia davanti a lui per adorarlo ed esclama: «Mio Signore e mio Dio!». Il credente ebreo riservava questi appellativi solo a Dio ma Tommaso ora li indirizza a Gesù: siamo di fronte alla più alta confessione di fede in Gesù di tutto il Nuovo Testamento.

Tommaso non ha avuto bisogno di «mettere il dito», eppure ha dovuto vedere con i suoi occhi; ma è grazie a lui se Gesù può pronunciare l’ultima beatitudine: «beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!». I destinatari di queste parole siamo tutti noi, chiamati a sperimentare la beatitudine di chi vede Gesù con gli occhi della comunità cristiana, radunata nel giorno del Signore, la domenica, e in ascolto della parola di Dio. Ecco dove si incontra il Signore risorto!

Si comprendono dunque le parole con cui si conclude il Vangelo: «Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome».

Ebbene, un giorno, varcata la soglia di questa vita, vedremo anche noi le ferite delle mani e del costato di Cristo, Figlio di Dio (l’Apocalisse dice che egli conserva anche in cielo i segni della sua passione) e, come Tommaso, pieni di gioia esclameremo: «Mio Signore e mio Dio!».

Il sacerdote e il vecchio Jim

Un sacerdote stava camminando in chiesa verso mezzogiorno e passando dall’altare decise di fermarsi lì vicino per vedere chi era venuto a pregare.
In quel momento si aprì la porta, il sacerdote inarcò il sopracciglio vedendo un uomo che si avvicinava; l’uomo aveva la barba lunga di parecchi giorni, indossava una camicia consunta, aveva una giacca vecchia i cui bordi avevano iniziato a disfarsi.
L’uomo si inginocchiò, abbassò la testa, quindi si alzò e uscì.

Nei giorni seguenti lo stesso uomo, sempre a mezzogiorno, tornava in chiesa con una valigia, si inginocchiava brevemente e quindi usciva.

Il sacerdote, un po’ spaventato, iniziò a sospettare che si trattasse di un ladro. Quindi un giorno si mise davanti alla porta della chiesa e quando l’uomo stava per uscire dalla chiesa lo fermò e gli chiese:

– “Che fai qui?”.

L’uomo gli rispose che lavorava in zona e aveva mezz’ora libera per il pranzo e approfittava di questo momento per pregare.

– “Rimango solo un momento, sai, disse l’uomo al sacerdote, perché la fabbrica è un po’ lontana, quindi mi inginocchio e dico: “Signore, sono venuto nuovamente per dirti quanto mi hai reso felice quando mi hai liberato dai miei peccati… non so pregare molto bene, però ti penso tutti i giorni… Beh, Gesù… qui c’è Jim a rapporto”.

Il sacerdote si sentì uno stupido e disse a Jim che andava bene, che era il benvenuto in chiesa quando voleva.

Dopo che Jim andò via, il sacerdote si inginocchiò davanti all’altare e iniziò a piangere e, mentre le lacrime scendevano sulle sue guance, nel suo cuore ripeteva la preghiera di Jim:

– “Sono venuto solo per dirti, Signore, quanto sono felice da quando ti ho incontrato attraverso i miei simili e mi hai liberato dai miei peccati… non so molto bene come pregare, però penso a te tutti i giorni… Beh, Gesù… eccomi a rapporto!”.

Dopo qualche tempo il sacerdote notò che il vecchio Jim non era venuto più in chiesa.
I giorni passavano e Jim non tornava a pregare. Il padre iniziò a preoccuparsi e un giorno andò alla fabbrica a chiedere di lui; lì gli dissero che Jim era malato e che i medici erano molto preoccupati per il suo stato di salute, ma che tuttavia credevano che avrebbe potuto farcela.

Nella settimana in cui rimase in ospedale Jim non era mai triste, anzi, sorrideva sempre e la sua allegria era contagiosa.
La caposala non poteva capire perché Jim fosse tanto felice dato che non aveva mai ricevuto né fiori, né biglietti augurali, né visite.

Un giorno il sacerdote andò a fargli visita e, avvicinandosi al letto di Jim con l’infermiera, questa gli disse, mentre Jim ascoltava:

– “Nessun amico è venuto a trovarlo, non ha nessuno”, ma nonostante ciò è sempre allegro.

Sorpreso da questa affermazione dell’infermiera, il vecchio Jim disse sorridendo:

– “Padre, l’infermiera si sbaglia! Lei non può sapere che tutti i giorni, da quando sono stato ricoverato in ospedale, a mezzogiorno, un mio amato amico viene, si siede sul letto, mi prende le mani, si inclina su di me e mi dice: “Sono venuto solo per dirti, Jim, quanto sono stato felice da quando ho trovato la tua amicizia e ti ho liberato dai tuoi peccati… mi è sempre piaciuto ascoltare le tue preghiere, ti penso ogni giorno… e io sarò con te sempre, ogni giorno, fino alla fine…”.

MORALE: non dimentichiamoci mai di Dio, perché Lui non si dimentica mai di noi. Abbiamo sempre fede in Colui che tutto può perché a Dio nulla è impossibile.

IL PRETE E LA MORTE DI UNA DISTINTA PERSONA

Un giovane prete, che amava le anime dei suoi parrocchiani, fece un annuncio una domenica mattina dopo la messa. Disse:

– “Una persona distinta della parrocchia è morta. Il funerale si terrà mercoledì alle nove”.

Poiché il padre non menzionò mai il nome della persona distinta, l’intera parrocchia era in fermento su chi potesse essere la persona. I parrocchiani iniziarono ad indagare cercando di capire chi fosse, ma non ci riuscirono, così la curiosità riempì la chiesa il mercoledì mattina. Infatti, la chiesa era così piena che la gente doveva stare in piedi in fondo.

Quando la bara fu aperta, la gente si fece avanti per vedere i resti mortali della persona distinta. Molte persone sussultarono di sorpresa quando guardarono nella bara.

Dopo la messa, il giovane prete disse alla gente:

– “Guardando nella bara, avete visto che la persona morta eravate voi. Ho preso in prestito questa bara e vi ho messo uno specchio perché poteste vedere voi stessi. Voi, figli miei, siete spiritualmente morti, così ho pensato di seppellirvi.
Settimana dopo settimana mi siedo da solo nel confessionale, pregando che veniate a liberarvi dei vostri peccati, e settimana dopo settimana vi vedo ricevere nostro Signore nell’Eucaristia anche se non vi confessate mai! Così questa Messa è stata celebrata per tutti voi”.

Da quel giorno il giovane sacerdote non fu mai più solo nel confessionale.

MORALE: Il peccato dovrebbe riempirci tutti di orrore, invece lo ignoriamo. Siamo diventati un popolo che dà giudizi morali più per convenienza che per una coscienza ben formata.

Viviamo in cattivi matrimoni, eppure riceviamo la Comunione. Usiamo contraccettivi artificiali, eppure riceviamo la Comunione. Facciamo uso di pornografia, eppure riceviamo la Comunione. Trattiamo il sesso come un’attività ricreativa e lo facciamo fuori dai vincoli del matrimonio, eppure riceviamo la Comunione. Votiamo per candidati che promuovono l’aborto e la contraccezione, eppure riceviamo la Comunione. Saltiamo la Messa della domenica e dei giorni festivi, eppure quando andiamo a Messa riceviamo la Comunione. Commettiamo un peccato grave e, senza confessarci, riceviamo la Comunione. Manchiamo di rispetto ai nostri genitori, agli anziani, al nostro prossimo, eppure riceviamo la Comunione.
Desideriamo il male o desideriamo vendetta contro gli altri, eppure riceviamo la Comunione.

Ogniqualvolta che riceviamo la Comunione in uno stato di peccato mortale commettiamo sacrilegio, eppure continuiamo a ricevere la Comunione come se niente fosse.

La Chiesa Cattolica ci richiede per legge canonica di andare a confessarci almeno una volta all’anno, durante il periodo pasquale, ma questo è solo un minimo per il bene delle nostre anime immortali e non per il cuore della Chiesa. Il cuore della Chiesa ci raccomanda fortemente di andare a confessarci almeno una volta al mese, ed è molto contenta se ci avvaliamo dei benefici che cambiano la vita che provengono dal frequentare il confessionale una volta alla settimana.

Quando vai a confessarti dallo stesso prete con frequenza e regolarità, quel prete comincia a conoscere la tua anima come si conosce una persona che diventa tuo buon amico. Man mano che conosce la tua anima, è in grado di aiutarti a crescere, migliorare e imparare come persona, e a diventare santo agli occhi di Dio. Usare la misericordia di Dio nel confessionale richiede solo alcuni momenti della tua giornata.

Ebbene, avviciniamoci con più frequenza al sacramento della Riconciliazione!

Un Dio ipocrita se non porge l’altra guancia…

Un giorno Padre Anatolij incontrò lungo la strada un predicatore che furente urlava:

– “Se persevererete nel peccato, Dio riverserà su di voi abbondanti castighi! Pestilenze, carestie e cataclismi farà abbattere il Signore su di voi!”.

Il vecchio monaco si sedette in un angolo e sorridendo si rivolse al predicatore:

– “Fratello mio, dev’essere davvero ipocrita quel Dio che dice a noi di porgere l’altra guancia, mentre lui si vendica delle offese ricevute!? Dev’essere un falso Dio quello che dice di amare i nemici e di pregare per coloro che ci perseguitano, quando Lui è persecutore dei suoi nemici e inquisitore dei suoi oppositori!? Dev’essere davvero un impostore quel Dio che chiede a Pietro di riporre la spada per poi estrarre egli stesso una falce!? Perdonami se non riesco a credere in questo Dio e se per questa mia mancanza di fede tu dovessi considerarmi un nemico, allora ti chiedo di amarmi e di pregare per me. Io mi affido a Colui che alle percosse rispose con il perdono sulla croce, confidando che Egli sarà con me nella pestilenza, nella carestia e nei cataclismi”.

MORALE: Nella Sacra Scrittura, il Signore è presentato come “Dio misericordioso”. Egli stesso, come narra il Libro dell’Esodo, rivelandosi a Mosè si autodefinisce così: «Il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà» (34,6). Il Signore, dunque, è “misericordioso”: questa parola evoca un atteggiamento di tenerezza come quello di una madre nei confronti del figlio quando prende in braccio il suo bambino, desiderosa solo di amare, proteggere, aiutare, pronta a donare tutto, anche sé stessa. Egli, dunque, è sempre pronto ad accogliere, a comprendere, a perdonare perché, come recita il salmo: Il Signore ti custodirà da ogni male:
egli custodirà la tua vita.
Il Signore ti custodirà quando esci e quando entri,
da ora e per sempre» (121,3-4.7-8). Sperimentiamo, allora, la gioia di essere amati da questo Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e grande nell’amore e nella fedeltà.

Commento al Vangelo della VI Domenica del Tempo Ordinario Anno B (14 febbraio 2021)

Signore, guariscici dall’indifferenza!

Nelle letture di questa sesta Domenica del tempo ordinario risuona più volte la parola: lebbra. Al tempo di Gesù la lebbra era una malattia spaventosa. Va ricordato che nell’Israele antico il lebbroso rappresentava la persona emarginata per eccellenza: colpito da una malattia sentita non solo come ripugnante, ma anche come dovuta a una punizione divina per i peccati commessi, il lebbroso viveva la condizione più disperante e vergognosa in Israele. Alle sofferenze fisiche si aggiungevano infatti quelle connesse alla sua separazione dalla famiglia e dalla società poiché vi era la convinzione che questa malattia fosse talmente contagiosa da infettare chiunque fosse venuto in contatto con il malato, e ogni lebbroso, vedendo la sua carne spaventosamente mangiata dalla malattia, era indotto a comportarsi come se fosse ormai morto. Inoltre, oltre alle sofferenze fisiche, vi era il giudizio religioso che faceva del lebbroso un peccatore e, dunque, un castigato da Dio. Dicevano: o ha peccato lui, oppure qualcuno della sua famiglia.

Ebbene, sul fenomeno della lebbra le letture di questa Domenica ci permettono di conoscere l’atteggiamento prima della legge mosaica e poi del Vangelo di Cristo. Nel brano tratto dal Levitico si dice che la persona sospettata di lebbra deve essere condotta dal sacerdote il quale, dopo averla esaminata, dichiarerà quella persona impura (cf Lv 13,3). Da quel momento «Il lebbroso colpito da piaghe porterà vesti strappate e il capo scoperto; velato fino al labbro superiore, andrà gridando: “Impuro! Impuro!”. Sarà impuro finché durerà in lui il male; è impuro, se ne starà solo, abiterà fuori dell’accampamento» (I Lettura).

L’antico Libro del Levitico, come si nota, traccia una linea di comportamento igienico-sanitario nei confronti degli ammalati di lebbra. Disposizioni severissime per la paura che incuteva questa terribile malattia.

Non occorre però scandalizzarsi troppo di fronte a questa ingiustizia, perché è la stessa che noi commettiamo ancora oggi, quando siamo tentati di giudicare la malattia di un altro quale esito di un comportamento immorale; oppure quando di fronte alla nostra malattia, ci poniamo la domanda: «Che peccato ho fatto? Perché questo castigo da parte di Dio?»…

Vediamo ora come si comporta Gesù nel Vangelo. Marco scrive che «Venne da lui un lebbroso». Gesù non lo allontana, come imponeva la legge, ma accetta di incontrare una persona che tutti evitavano; una persona che era costretta a vivere in luoghi deserti e a svelare la propria condizione a chiunque stesse per avvicinarglisi. Ebbene, Gesù lo lascia avvicinare a sé, fino ad ascoltare ciò che il lebbroso vuole dirgli: «Se vuoi, puoi purificarmi!». Alla vista di quest’uomo l’evangelista annota che Gesù «ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: “Lo voglio, sii purificato!”». Egli, dunque, toccandolo, supera la legge interpretandola con misericordia e in tal modo, purifica, guarisce, restituisce alla condizione di vita piena quel povero sventurato.

È da notare che il lebbroso aveva detto a Gesù: «Se vuoi, puoi». Queste parole significavano un enorme atto di fiducia e cioè: «Io conto su di te e so che a te è possibile guarirmi». Ciò significa che nessuna malattia, nessuna sofferenza, nessuna disgrazia deve diventare pretesto per allontanarci da Dio. Essere cristiani significa abbandonarci e avere fiducia in lui perché «nulla è impossibile a Dio» (cf Lc 1,37). Essere cristiani, inoltre, significa anche non emarginare l’anziano, il malato, il sofferente, il povero ma avere compassione per il prossimo e amarlo. «Se pensiamo solo a noi stessi non vivendo la carità non diciamo di essere cristiani!» (san Paolo VI).

Come possiamo dimenticare il grande gesto compiuto da san Francesco d’Assisi quando abbracciò il lebbroso? Proprio il giorno in cui ha deciso di abbracciare il lebbroso, il poverello d’Assisi ha capito sinteticamente tutto il cristianesimo e ha incominciato il suo cammino di sequela fino a divenire «somigliantissimo a Gesù».

Gesù è la santità che brucia ogni nostro peccato, è la vita che guarisce le nostre infermità, egli è colui che «si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori» (cf Is 53,4a).

L’episodio evangelico si conclude con Gesù che manda il lebbroso dal sacerdote perché confermi la sua guarigione. Era infatti indispensabile il giudizio del sacerdote per restituire piena dignità sociale a questo lebbroso ormai guarito. In questo caso Gesù rispetta la legge e ne riconosce la validità. Egli, dunque, dimostra così di non essere venuto ad abolire la legge, ma a «darle compimento», cioè a realizzare quello che la legge prescriveva di fare, ma non dava la capacità di fare.

Il racconto è caratterizzato da uno straordinario clima di normalità. I maghi e i guaritori sono dei ciarlatani che illudono e ingannano le persone: più si parla di loro, meglio è. Non è così per Gesù. Infatti il Maestro Divino dirà al lebbroso guarito: «Guarda di non dire niente a nessuno» ma egli, scrive Marco, «si allontanò e si mise a proclamare e a divulgare il fatto».

Divulghiamo anche noi la misericordia di Dio e chiediamo al Padre nostro che è nei cieli di risanarci dal peccato che ci divide e dalle discriminazioni che ci avviliscono. Che il Signore ci aiuti a scorgere nel volto del prossimo l’immagine del Cristo Gesù, unica nostra salvezza. Amen. 

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