Commento al Vangelo della I Domenica di Avvento Anno B (3 dicembre 2023)

Vegliamo e facciamo attenzione perché non siamo noi i padroni del mondo!

Oggi iniziamo il cammino dell’Avvento, che culminerà nel Natale. L’Avvento è il tempo che ci è dato per accogliere il Signore che ci viene incontro, anche per verificare il nostro desiderio di Dio, per guardare avanti e prepararci al ritorno di Cristo. Egli ritornerà a noi nella festa del Natale, quando faremo memoria della sua venuta storica nell’umiltà della condizione umana; ma viene dentro di noi ogni volta che siamo disposti a riceverlo, e verrà di nuovo alla fine dei tempi per «giudicare i vivi e i morti». Per questo dobbiamo sempre essere vigilanti e attendere il Signore con la speranza di incontrarlo. La liturgia odierna ci introduce proprio in questo suggestivo tema della vigilanza e dell’attesa.

Nel Vangelo Gesù esorta a fare attenzione e a vegliare, per essere pronti ad accoglierlo nel momento del ritorno. Egli, scrive l’evangelista Marco, dice ai suoi discepoli: «Fate attenzione, vegliate». «Vegliate!». Questo è l’appello di Gesù nel Vangelo di oggi. Lo rivolge non solo ai suoi discepoli, ma a tutti: «Vegliate!». È un richiamo salutare a ricordarci che la vita non ha solo la dimensione terrena, ma è proiettata verso un “oltre”, come una pianticella che germoglia dalla terra e si apre verso il cielo. Una pianticella pensante, l’uomo, dotata di libertà e responsabilità, per cui ognuno di noi sarà chiamato a rendere conto di come ha vissuto, di come ha utilizzato le proprie capacità: se le ha tenute per sé o le ha fatte fruttare anche per il bene dei fratelli.

Anche Isaia, il profeta dell’Avvento, ci fa riflettere oggi con una preghiera accorata, rivolta a Dio a nome del popolo. Egli riconosce le mancanze della sua gente, e a un certo punto dice: «Nessuno invocava il tuo nome, nessuno si risvegliava per stringersi a te; perché tu avevi nascosto da noi il tuo volto, ci avevi messo in balìa della nostra iniquità». Come non rimanere colpiti da questa descrizione? Sembra rispecchiare certi panorami del mondo post-moderno: le città dove la vita diventa anonima e orizzontale, dove Dio sembra assente e l’uomo l’unico padrone, come se fosse lui l’artefice e il regista di tutto: le costruzioni, il lavoro, l’economia, i trasporti, le scienze, la tecnica, tutto sembra dipendere solo dall’uomo. E a volte, in questo mondo che appare quasi perfetto, accadono cose sconvolgenti, o nella natura, o nella società, per cui noi pensiamo che Dio si sia come ritirato, ci abbia, per così dire, abbandonati a noi stessi.

In realtà, il vero “padrone” del mondo non è l’uomo, ma Dio. Il Vangelo dice: «Vegliate dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino; fate in modo che, giungendo all’improvviso, non vi trovi addormentati». Il Tempo di Avvento viene ogni anno a ricordarci questo, perché la nostra vita ritrovi il suo giusto orientamento, verso il volto di Dio. Il volto non di un “padrone”, ma di un “Padre” e di un “Amico”.

Con la Vergine Maria, che ci guida nel cammino dell’Avvento, facciamo nostre le parole del profeta: «Signore, tu sei nostro padre; noi siamo argilla e tu colui che ci plasma, tutti noi siamo opera delle tue mani». Amen! 

Commento al Vangelo della XXXIII Domenica del Tempo Ordinario Anno A (19 novembre 2023)

Facciamo fruttificare i nostri talenti!

La Parola di Dio di questa domenica – la penultima dell’anno liturgico – ci invita ad essere vigilanti e operosi, nell’attesa del ritorno del Signore Gesù alla fine dei tempi. La pagina evangelica narra la celebre parabola dei talenti, riportata da san Matteo. Il “talento” era un’antica moneta romana, di grande valore, e proprio a causa della popolarità di questa parabola è diventata sinonimo di dote personale, che ciascuno è chiamato a far fruttificare. In realtà, il testo parla di «un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno». Il servo che ha ricevuto cinque talenti è intraprendente e li fa fruttare guadagnandone altri cinque. Allo stesso modo si comporta il servo che ne ha ricevuti due, e ne procura altri due. Invece il servo che ne ha ricevuto uno, scava una buca nel terreno e vi nasconde la moneta del suo padrone.

È questo stesso servo che spiega al padrone, al suo ritorno, il motivo del suo gesto, dicendo: «Signore, io so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra». Questo servo non ha col suo padrone un rapporto di fiducia, ma ha paura di lui, e questa lo blocca. La paura immobilizza sempre e spesso fa compiere scelte sbagliate. La paura scoraggia dal prendere iniziative, induce a rifugiarsi in soluzioni sicure e garantite, nel «si è fatto sempre così», e in questo modo si finisce per non realizzare niente di buono. Per andare avanti e crescere nel cammino della vita, non bisogna avere paura, bisogna avere fiducia.

L’uomo della parabola rappresenta Cristo stesso, i servi sono i discepoli e i talenti sono i doni che Gesù affida loro. Perciò tali doni, oltre alle qualità naturali, rappresentano le ricchezze che il Signore Gesù ci ha lasciato in eredità, perché le facciamo fruttificare: la sua Parola, depositata nel santo Vangelo; il Battesimo, che ci rinnova nello Spirito Santo; la preghiera – il “Padre nostro” – che eleviamo a Dio come figli uniti nel Figlio; il suo perdono, che ha comandato di portare a tutti; il sacramento del suo Corpo immolato e del suo Sangue versato. In una parola: il Regno di Dio, che è Lui stesso, presente e vivo in mezzo a noi. Questo è il tesoro che Gesù ha affidato ai suoi amici, al termine della sua breve esistenza terrena.

La parabola odierna, dunque, insiste sull’atteggiamento interiore con cui accogliere e valorizzare questo dono e ci fa capire quanto è importante avere un’idea vera di Dio. Non dobbiamo pensare che Egli sia un padrone cattivo, duro e severo che vuole punirci. Se dentro di noi c’è questa immagine sbagliata di Dio, allora la nostra vita non potrà essere feconda, perché vivremo nella paura e questa non ci condurrà a nulla di costruttivo, anzi, la paura ci paralizza, ci autodistrugge. Siamo chiamati a riflettere per scoprire quale sia veramente la nostra idea di Dio. Già nell’Antico Testamento Egli si è rivelato come «Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà» (cf Es 34,6). E Gesù ci ha sempre mostrato che Dio non è un padrone severo e intollerante, ma un padre pieno di amore, di tenerezza, un padre pieno di bontà. Pertanto possiamo e dobbiamo avere un’immensa fiducia in Lui. La parabola, inoltre, mette in maggior risalto i buoni frutti portati dai discepoli che, felici per il dono ricevuto, non l’hanno tenuto nascosto con timore e gelosia, ma l’hanno fatto fruttificare, condividendolo, partecipandolo. Sì, ciò che Cristo ci ha donato si moltiplica donandolo! È un tesoro fatto per essere speso, investito, condiviso con tutti, come ci insegna quel grande amministratore dei talenti di Gesù che è l’apostolo Paolo.

Gesù, dunque, ci mostra la generosità e la premura del Padre in tanti modi: con la sua parola, con i suoi gesti, con la sua accoglienza verso tutti, specialmente verso i peccatori, i piccoli e i poveri; ma anche con i suoi ammonimenti, che rivelano il suo interesse perché noi non sprechiamo inutilmente la nostra vita. È segno infatti che Dio ha grande stima di noi: questa consapevolezza ci aiuta ad essere persone responsabili in ogni nostra azione. Pertanto, la parabola dei talenti ci richiama a una responsabilità personale e a una fedeltà che diventa anche capacità di rimetterci continuamente in cammino su strade nuove, senza “sotterrare il talento”, cioè i doni che Dio ci ha affidato, e di cui ci chiederà conto.

La Vergine Maria che, ricevendo il più prezioso tra i doni, Gesù stesso, lo ha offerto al mondo con immenso amore, ci aiuti ad essere servi buoni e fedeli alla volontà di Dio facendo fruttificare i talenti di cui ci ha dotato, perché possiamo prendere parte un giorno “alla gioia del nostro Signore”. Amen!

 

Commento al Vangelo della XXVII Domenica del Tempo Ordinario Anno A (8 ottobre 2023)

Cristo: pietra angolare!

 La liturgia di questa domenica ci propone la parabola dei vignaioli, ai quali il padrone affida la vigna che aveva piantato e poi se ne va. Così viene messa alla prova la lealtà di questi vignaioli: la vigna è affidata loro, che devono custodirla, farla fruttificare e consegnare al padrone il raccolto. Giunto il tempo della vendemmia, il padrone manda i suoi servi a raccogliere i frutti. Ma i vignaioli assumono un atteggiamento possessivo: non si considerano semplici gestori, bensì proprietari, e si rifiutano di consegnare il raccolto. Maltrattano i servi, al punto da ucciderli. Il padrone si mostra paziente con loro: manda altri servi, più numerosi dei primi, ma il risultato è lo stesso. Alla fine decide di mandare il proprio figlio; ma quei vignaioli, prigionieri del loro comportamento possessivo, uccidono anche il figlio pensando che così avrebbero avuto l’eredità.

Questo racconto illustra in maniera allegorica quei rimproveri che i Profeti avevano detto sulla storia di Israele. È una storia che ci appartiene: si parla dell’alleanza che Dio ha voluto stabilire con l’umanità ed alla quale ha chiamato anche noi a partecipare. Questa storia di alleanza però, come ogni storia di amore, conosce i suoi momenti positivi ma è segnata anche da tradimenti e da rifiuti. Per far capire come Dio Padre risponde ai rifiuti opposti al suo amore e alla sua proposta di alleanza, il brano evangelico pone sulle labbra del padrone della vigna una domanda: «Quando verrà dunque il padrone della vigna, che cosa farà a quei contadini?». Questa domanda sottolinea che la delusione di Dio per il comportamento malvagio degli uomini non è l’ultima parola! È qui la grande novità del Cristianesimo: un Dio che, pur deluso dai nostri sbagli e dai nostri peccati, non viene meno alla sua parola, non si ferma e soprattutto non si vendica!

Sì! Dio non si vendica! Dio ama e ci aspetta per perdonarci, per abbracciarci. Attraverso le “pietre di scarto” – e Cristo è la prima pietra che i costruttori hanno scartato – attraverso situazioni di debolezza e di peccato, Dio continua a mettere in circolazione il «vino nuovo» della sua vigna, cioè la misericordia; questo è il vino nuovo della vigna del Signore: la misericordia. C’è un solo impedimento di fronte alla volontà tenace e tenera di Dio: la nostra arroganza e la nostra presunzione, che diventa talvolta anche violenza! Di fronte a questi atteggiamenti la Parola di Dio conserva tutta la sua forza di rimprovero e di ammonimento: «a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti».

Sono parole che fanno pensare alla grande responsabilità di chi, in ogni epoca, è chiamato a lavorare nella vigna del Signore, specialmente con ruolo di autorità, e spingono a rinnovare la piena fedeltà a Cristo. Egli è «la pietra che i costruttori hanno scartato», perché l’hanno giudicato nemico della legge e pericoloso per l’ordine pubblico; ma Lui stesso, rifiutato e crocifisso, è risorto, diventando la «pietra d’angolo» su cui possono poggiare con assoluta sicurezza le fondamenta di ogni esistenza umana e del mondo intero. Sant’Agostino commenta che «Dio ci coltiva come un campo per renderci migliori» (Sermo 87, 1, 2: PL 38, 531). Dio ha un progetto per i suoi amici, ma purtroppo la risposta dell’uomo è spesso orientata all’infedeltà, che si traduce in rifiuto. L’orgoglio e l’egoismo impediscono di riconoscere e di accogliere persino il dono più prezioso di Dio: il suo Figlio unigenito. Quando, infatti, «mandò loro il proprio figlio – scrive l’evangelista Matteo – … [i vignaioli] lo presero, lo cacciarono fuori dalla vigna e lo uccisero». Dio consegna se stesso nelle nostre mani, accetta di farsi mistero insondabile di debolezza e manifesta la sua onnipotenza nella fedeltà ad un disegno d’amore che, alla fine, prevede però anche la giusta punizione per i malvagi.

Saldamente ancorati nella fede alla pietra angolare che è Cristo, rimaniamo in Lui come il tralcio che non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite. Solamente in Lui, per Lui e con Lui si edifica la Chiesa, popolo della nuova Alleanza. Ha scritto in proposito il Papa san Paolo VI: «Il primo frutto dell’approfondita coscienza della Chiesa su se stessa è la rinnovata scoperta del suo vitale rapporto con Cristo. Notissima cosa, ma fondamentale, indispensabile, ma non mai abbastanza conosciuta, meditata, celebrata» (Enc. Ecclesiam suam, 6 agosto 1964: AAS 56 [1964], 622).

Invochiamo l’intercessione di Maria Santissima, affinché ci aiuti ad essere saldamente ancorati nella fede a Cristo Signore e ci aiuti ad essere dappertutto, specialmente nelle periferie della società, la vigna che il Signore ha piantato per il bene di tutti e a portare il vino nuovo della misericordia del Signore. Amen!

 

Commento al Vangelo della XXV Domenica del Tempo Ordinario Anno A (24 settembre 2023)

Umili operai nella vigna del Signore!

 

Nel Vangelo di oggi, Gesù racconta la parabola del padrone della vigna che a diverse ore del giorno chiama operai a lavorare nella sua vigna. E alla sera dà a tutti la stessa paga, «un denaro», suscitando la protesta di quelli della prima ora. È chiaro che quel denaro rappresenta la «vita eterna», dono che Dio riserva a tutti. Anzi, proprio quelli che sono considerati «ultimi», se lo accettano, diventano «primi», mentre i «primi» possono rischiare di finire «ultimi». Un primo messaggio di questa parabola sta nel fatto stesso che il padrone non tollera, per così dire, la disoccupazione: vuole che tutti siano impegnati nella sua vigna. E in realtà l’essere chiamati è già la prima ricompensa: poter lavorare nella vigna del Signore, mettersi al suo servizio, collaborare alla sua opera, costituisce di per sé un premio inestimabile, che ripaga di ogni fatica. Ma lo capisce solo chi ama il Signore e il suo Regno; chi invece lavora unicamente per la paga non si accorgerà mai del valore di questo inestimabile tesoro.

A narrare la parabola è san Matteo, apostolo ed evangelista e, di san Matteo, mi piace sottolineare che, in prima persona, ha vissuto questa esperienza (cf Mt 9,9). Egli infatti, prima che Gesù lo chiamasse, faceva di mestiere il pubblicano e perciò era considerato pubblico peccatore, escluso dalla «vigna del Signore». Ma tutto cambia quando Gesù, passando accanto al suo banco delle imposte, lo guarda e gli dice: «Seguimi». Matteo si alzò e lo seguì. Da pubblicano diventò immediatamente discepolo di Cristo. Da «ultimo» si trovò «primo», grazie alla logica di Dio, che – per nostra fortuna! – è diversa da quella del mondo. «I miei pensieri non sono i vostri pensieri – dice il Signore per bocca del profeta Isaia -, le vostre vie non sono le mie vie» (I Lettura). Anche san Paolo ha sperimentato la gioia di sentirsi chiamato dal Signore a lavorare nella sua vigna. E quanto lavoro ha compiuto! Ma, come egli stesso confessa, è stata la grazia di Dio a operare in lui, quella grazia che da persecutore della Chiesa lo trasformò in apostolo delle genti. Tanto da fargli dire: «Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno». Subito però aggiunge: «Ma se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto, non so davvero che cosa scegliere» (cf Fil 1,21-22). Paolo ha compreso bene che operare per il Signore è già su questa terra una ricompensa.

Ebbene, con questa parabola, Gesù vuole aprire i nostri cuori alla logica dell’amore del Padre, che è gratuito e generoso. Si tratta di lasciarsi stupire e affascinare dai «pensieri» e dalle «vie» di Dio. I pensieri umani sono spesso segnati da egoismi e tornaconti personali, e i nostri angusti e tortuosi sentieri non sono paragonabili alle ampie e rette strade del Signore. Egli – non dimentichiamolo mai – usa misericordia, perdona largamente, è pieno di generosità e di bontà che riversa su ciascuno di noi, apre a tutti i territori sconfinati del suo amore e della sua grazia, che soli possono dare al cuore umano la pienezza della gioia.

Gesù, inoltre, vuole farci contemplare lo sguardo di quel padrone: lo sguardo con cui vede ognuno degli operai in attesa di lavoro, e li chiama ad andare nella sua vigna. È uno sguardo pieno di attenzione, di benevolenza; è uno sguardo che chiama, che invita ad alzarsi, a mettersi in cammino, perché vuole la vita per ognuno di noi, vuole una vita piena, impegnata, salvata dal vuoto e dall’inerzia. Dio non esclude nessuno e vuole che ciascuno raggiunga la sua pienezza. Questo è l’amore del nostro Dio, del nostro Dio che è Padre.

Dalla Vergine Maria, che è tralcio perfetto della vigna del Signore, è germogliato il frutto benedetto dell’amore divino: Gesù, nostro Salvatore. Ci aiuti Lei a rispondere sempre e con gioia alla chiamata del Signore, e a trovare la nostra felicità nel poter faticare per il Regno dei cieli. Amen!

 

Commento al Vangelo della XXV Domenica del Tempo Ordinario Anno C (18 settembre 2022)

Non potete servire Dio e la ricchezza!

La parabola odierna di questa domenica ha come protagonista un amministratore disonesto. Perché Gesù racconta questa parabola? Per farci comprendere che il male serve a farci riflettere: Gesù evidentemente non loda la disonestà dell’amministratore, ma loda la sua abilità.

Il Signore, rivolgendosi agli scribi e ai farisei, a coloro che lo accusavano di mangiare con i peccatori, racconta che un amministratore, accusato di aver sperperato le ricchezze a lui affidate da un uomo ricco, prima di lasciare il proprio incarico, chiama i debitori del padrone e, con un’operazione di falsificazione delle ricevute, li rende debitori verso se stesso. Così, anche se licenziato, avrà qualcuno che gli dovrà riconoscenza e lo accoglierà «in casa sua». Grande astuzia, dunque, e grande, doppia disonestà verso il suo padrone, il quale, tuttavia, conosciuta la vicenda e saputo come il suo amministratore si era “aggiustato il domani”, lo elogia «perché aveva agito con scaltrezza». Ebbene sì, padrone e amministratore sono entrambi «figli di questo mondo» e il loro ragionamento è certamente mondano, segnato da furbizia, ma anche da falsità e ingiustizia. Lo stesso Gesù, infatti, dice che «i figli di questo mondo verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce». Che cosa significano queste parole? Significano che «coloro che non credono», «cristiani di nome ma non di fatto», per questa vita terrena, per la sistemazione economica, fanno fatiche incredibili. Si sacrificano per cose banali, per cose che passano. E allora, vuole farci capire Gesù: se i figli di questo mondo si preoccupano per il loro domani mondano, perché i figli della luce, non si preoccupano con altrettanta serietà del loro domani: il domani davanti a Dio? Esistono persone che per accumulare denaro fanno sacrifici incredibili e si sottopongono a fatiche incessanti: perché, allora, noi, «uomini religiosi», «figli della luce», che conosciamo il vero tesoro della vita non facciamo altrettanti sacrifici per guadagnarlo?

Osserviamo il comportamento di tanti “cristiani”: quando si tratta delle cose di Dio, si guarda l’orologio (guai se la celebrazione eucaristica inizia con qualche minuto di ritardo o se si prolunga! Guai a stare qualche minuto in più nella casa del Signore!). Abbiamo sempre fretta e mai tempo per Gesù. Quanto tempo perdiamo nei bar, davanti la televisione etc.! E poi se dobbiamo dedicare qualche minuto in più alla preghiera ci annoiamo. Diciamo di credere e amare Dio. Ma amiamo e crediamo realmente in Dio? E se davvero lo amiamo e crediamo in lui, siamo coerenti con ciò che Gesù ha detto e insegnato? Mettiamo in pratica i consigli evangelici? Siamo disposti a fare sempre la sua santa «volontà»? Facendo un attento esame di coscienza, notiamo, purtroppo, che siamo incoerenti. Predichiamo bene e razzoliamo male! Giustamente, allora, chi non crede, ride di noi, si fa beffe della religione. Anche chi ha una fede «piccola» si allontana perché è scandalizzato dai nostri comportamenti! La colpa è solo e soltanto nostra.

Se invece la nostra fede fosse più vera e sincera, se mettessimo in pratica, nonostante i nostri limiti, i consigli evangelici, se la nostra testimonianza fosse autentica, se facessimo più sacrifici per il Signore, quante persone ci stimerebbero di più e quante persone ritornerebbero a Dio? Non sarebbe già questo un grande apostolato e un grande esempio?

Gesù continua dicendo: «Ebbene: fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne». L’invito di Gesù è quello di procurarsi amici con la stessa determinazione che hanno i figli di questo mondo, ma anche facendo un uso diverso della ricchezza: si tratta di condividerla con i poveri che, essendo i primi cui è promesso il Regno (cf Lc 6, 20), potranno accoglierli nelle dimore eterne, cioè dove c’è la vita in Dio per sempre. Questo è il modo di «fare buon uso del tempo» (cf Ef 5, 16), del tempo che abbiamo in dono da vivere, per trasformare la ricchezza disonesta in fonte di comunione e di amicizia. Il denaro, dunque, va usato per il bene, per aiutare chi è in difficoltà!

Le parole con le quali Gesù conclude questa parabola sono un severo ammonimento: «Nessun servitore può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza». Ciò significa che o noi amiamo Dio con tutto il cuore, l’anima e le forze, oppure amiamo il denaro e, amando la ricchezza non possiamo amare Dio. Bisogna scegliere un «padrone», «signore». Chi è il «padrone», «signore» della nostra vita? Per chi viviamo? In chi riponiamo la nostra fiducia?

Quante volte l’orgoglio è il nostro vero padrone; quante volte l’interesse umano è la molla di tutte le nostre azioni; quante volte il denaro è il vero “dio” al quale si sacrifica tutto e tutti! Quante famiglie, purtroppo, si dividono e litigano per l’eredità; quante persone, pur di arrivare al potere, sono disposte ad uccidere fisicamente, moralmente e psicologicamente!

Non dimentichiamoci mai le parole di Gesù: «Dov’è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore» (cf Lc 12, 34); «Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede» (cf Lc 12, 15); «Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?» (cf Lc 12, 20).

Preghiamo Dio Padre onnipotente affinché, salvandoci dalla cupidigia, ci aiuti sempre ad amarlo e a servirlo come nostro unico Signore. Amen!

Commento al Vangelo della XIX Domenica del Tempo Ordinario Anno C (7 agosto 2022)

Vegliate e tenetevi pronti!

«Non temere, piccolo gregge»! Le parole di Gesù con cui si apre il vangelo odierno, sono un invito alla fiducia. Oggi nel mondo c’è tanta cattiveria, falsità, egoismo, ipocrisia e, spesso, il vero cristiano è sfiduciato. Però, questa espressione del Signore significa: «State tranquilli, non spaventatevi, non vi amareggiate, fidatevi di Dio e certamente non ve ne pentirete perché lasciando tutto per Dio, facendo la sua volontà e obbedendo ai suoi comandi, riceverete il centuplo e la vita eterna». E allora, anche quando la Chiesa è perseguitata, quando la fede è derisa, restiamo con Cristo e lasciamoci guidare da Lui. Pensiamo per un momento al martirio di santo Stefano: un giovane circondato dall’odio di un tribunale, non si lascia piegare, intimorire. Egli sa quel che rischia. Egli vede i sassi già pronti per l’esecuzione. Eppure è deciso e resta fedele a Cristo. Per lui la vita conta solo se vissuta per Cristo e quindi non esita a perderla perché sa che il Signore gli darà in premio la vita eterna. Paolo vede, assiste e, certamente, disprezza Stefano. Ma un giorno Paolo scriverà: «Ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore. Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura, per guadagnare Cristo» (cf Fil 3, 8).

Il vero discepolo, dice Gesù, è colui che non accumula tesori su questa terra: «Vendete ciò che possedete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro sicuro nei cieli, dove il ladro non arriva e tarlo non consuma. Perché, dov’è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore».

La vita è preziosa, si accorcia ogni giorno di più e, perciò, non va sciupata, ma vissuta con la maggiore intensità possibile ricordandoci sempre che se Gesù è il nostro vero tesoro, colui per il quale vale addirittura la pena di perdere la vita (cf Lc 9, 24), saremo anche capaci di orientare tutta l’esistenza verso la sua venuta alla fine dei tempi. La verità più bella del cristianesimo è che la vita non è la festa, ma l’attesa della festa. Noi cristiani siamo infatti per definizione coloro che vivono «con sobrietà, con giustizia e con pietà, nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo» (cf Tit 2, 13), «coloro che hanno atteso con amore la sua manifestazione» (cf 2Tm 4, 8). Il brano del vangelo ci invita, inoltre, all’attesa vigilante, per non essere impreparati quando il Signore viene a bussare alla nostra porta: «Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese; siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli aprano subito». A questo mandato egli unisce una promessa: «Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli». Per chi lo attende con perseveranza il Signore ripeterà i gesti compiuti nell’ultima cena, quando si è fatto servo dei suoi discepoli e ha detto loro: «Chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve» (cf Lc 22, 27). Sì, dobbiamo sempre essere ben desti, perché il Signore Gesù, il Figlio dell’uomo, verrà nell’ora che non pensiamo, come un ladro nella notte; per chi avrà saputo attenderlo – «e se, giungendo nel bel mezzo della notte o prima dell’alba, li troverà così, beati loro!» – si compirà allora la sua parola: «Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove e io preparo per voi un regno, come il Padre mio l’ha preparato per me, perché mangiate e beviate alla mia mensa nel mio regno» (cf Lc 22 28-30).

Infine, sollecitato da Pietro: «Signore, questa parabola la dici per noi o anche per tutti?», Gesù trae alcune conseguenze delle sue parole per quanti nella comunità hanno responsabilità di guida, responsabilità «pastorali». Gesù, infatti, attraverso le sue parole che valgono per tutti, vuol far capire che il favoritismo appartiene alla terra e non al cielo. È vero che tutti siamo invitati a vigilare, però è anche vero che il Signore, il «Pastore supremo» (cf 1Pt 5, 4), ha affidato ad alcuni il compito di essere amministratori fedeli e sapienti, incaricandoli di dare «la razione di cibo a tempo debito» ai con-servi. Ebbene costoro, cioè i pastori della chiesa, sappiano di essere chiamati a svolgere il loro ministero quali «servi di Cristo e amministratori dei misteri di Dio» (cf 1Cor 4, 1). Se questi servi saranno trovati intenti al loro servizio «beati loro», perché di percosse ne riceveranno poche; se invece, per l’affievolirsi dell’attesa del Signore, cederanno alla tentazione di spadroneggiare sul gregge loro affidato (cf 1Pt 5, 3), saranno puniti con severità poiché non potranno dire di non essere stati avvertiti: «Il servo che, conoscendo la volontà del padrone, non avrà disposto o agito secondo la sua volontà, riceverà molte percosse».

Il piccolo gregge della chiesa non deve temere nulla dall’esterno: l’unica minaccia seria può venirgli da se stesso, dalla sua incapacità di amare il Signore Gesù e di tenersi pronto alla sua venuta nella gloria. È questa attesa vigilante che dà senso alla nostra vita e ispira il nostro comportamento quotidiano. Lo aveva ben capito san Basilio, il quale scriveva: «Che cosa è proprio del cristiano? Vigilare costantemente ed essere sempre pronto a compiere ciò che è gradito a Dio, sapendo che nell’ora che non pensiamo il Signore viene».

Chiediamo a Dio Padre che arda nei nostri cuori la stessa fede che spinse Abramo a vivere sulla terra come pellegrino, e che non si spenga la nostra lampada, perché vigilanti nell’attesa della sua ora siamo introdotti da lui nella patria eterna. Amen.

Commento al Vangelo della VI Domenica di Pasqua Anno B (9 maggio 2021)

Dio si conosce amando

 Nelle letture di questa domenica è evidente e centrale il tema dell’amore. Questo, che è un argomento ricorrente nella prima Lettera di Giovanni, lo è anche nel brano del Vangelo dello stesso Giovanni che ci viene proposto oggi.

Giovanni, nella sua Lettera (seconda lettura) rivela che Dio è Amore. Tra le tante definizioni di Dio (essere perfettissimo, motore immobile, colui che è…), questa è certamente la più singolare e consolante. Dio non è responsabile del male che c’è nel mondo, Dio non manda i terremoti e le inondazioni, così come noi non siamo consegnati a un destino cieco e senza speranza, perché Dio è Amore e ci ama. «Dio non fa preferenza di persone» (prima lettura). Giovanni precisa che «Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore». Questa affermazione significa che se non siamo capaci di amare coloro che ci offendono, vuol dire che non abbiamo la carità di Dio e quindi non conosciamo Dio; se non siamo capaci di generosità senza aspettare ricompense, vuol dire che non abbiamo la carità di Dio e quindi siamo fuori della vita eterna; se non ci preoccupiamo di dare al prossimo  il nostro tempo, la nostra attenzione, il nostro affetto, il nostro servizio, noi non abbiamo carità e quindi nell’anima siamo già morti perché «chi non ama rimane nella morte» (cf 1Gv 3,14). Per questo solo chi ama può conoscere Dio perché lui ci ha amati per primo, di un amore senza misura, donandoci suo Figlio che si è offerto come «vittima di espiazione per i nostri peccati». Il cristianesimo, infatti, è annuncio di carità, di amore. La preghiera, la messa, l’eucaristia, l’adorazione, il rosario devono servire a farci crescere nella carità. Se tutto ciò non ci fa crescere nella carità non sono incontri con Dio, perché Dio è carità, è Amore e chi incontra Dio, necessariamente cresce nella carità. Santa madre Teresa di Calcutta diceva: «Se vedrete Dio nel prossimo riuscirete ad amare come Dio ama voi».

Nel Vangelo l’amore di Dio si manifesta nel suo Figlio Gesù. Egli infatti dice: «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore». Ogni cristiano è invitato a entrare in questo vortice d’amore. Dal momento che tra Padre e Figlio c’è amore condiviso e il Figlio ama noi, noi possiamo e dobbiamo sentirci coinvolti. Non solo: se il Padre ama il Figlio e il Figlio ci ama, anche noi dobbiamo amarci l’un l’altro.

Gesù inoltre dice: «Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena». Ma cosa è la gioia? La gioia nasce dall’amore, dal sentirsi amati e dall’amare a nostra volta. Senza l’amore, a che serve esistere? Senza l’amore quale sarebbe lo scopo della nostra vita?

Inoltre, annota l’evangelista, che Gesù dice: «Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore […] Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi». Gesù ha riassunto tutti i comandamenti nell’amore e ha proposto come pietra di paragone il buon samaritano, cioè uno che ama anche chi non è della sua famiglia, della sua terra, della sua razza. Uno che ama senza attendersi nulla.

Gesù aggiunge: «Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi». Ancora una volta si parla di amore e di amore di amicizia. Spesso pensiamo che l’amore di amicizia sia meno profondo e vero, meno importante. Quello che noi chiamiamo amore spesso è vestito di istinto e infatuazione. L’amicizia vera, invece, nasce spesso da un amore più raffinato e alto; genera rapporti di libertà, di rispetto, di condivisione. Ogni amore genuino dovrebbe colorarsi di amicizia per diventare più autentico e profondo, anche nel rapporto di coppia, anche in quello tra le persone di una stessa famiglia.  

«Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici». Gesù sicuramente sta pensando a se stesso, che tra breve si consegnerà alle sofferenze più atroci per dimostrare il suo amore senza misura. L’amore vero è quello che costa, non è solo qualcosa di romantico e di poetico. L’amore vero, a volte, chiede anche il sacrificio e il martirio: «Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri» (cf Gv 13,34).

Inoltre ai suoi apostoli il Maestro Divino dice: «tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda». Perché questa affermazione? Perché Dio ci ama e ci è amico. E dire di no ad un amico vero è difficile!

Il brano del Vangelo conclude con un comando di Gesù: «Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri». Ma l’amore può essere comandato? Sì. Perché esprime e arricchisce la nostra personalità. Perché l’amore è il valore più alto dal quale dipendono tutti gli altri, perché l’amore è presenza di Dio.

Il santo vescovo Agostino diceva: «Si possono avere tutti i sacramenti ed essere cattivi, ma non si può avere la carità ed essere cattivi».

Ebbene, noi possiamo attingere da questa carità, da questo amore, la forza per amare a nostra volta Dio, il prossimo, il coniuge, e per ottenere il perdono, ogni volta che abbiamo mancato di farlo. Amen.

Commento al Vangelo della I Domenica di Avvento Anno B (29 novembre 2020)

Vieni, Signore Gesù!  Maranà tha!

Inizia oggi, con la prima domenica di Avvento, il nuovo anno liturgico. La parola «Avvento» significa «venuta». Il tempo di Avvento, dunque, è tempo di attesa di qualcuno che deve venire. Ma chi deve venire? Chi, noi cristiani, dobbiamo attendere?

Le letture che abbiamo ascoltato, non proprio facili da intendere, ci aiutano a dare una risposta alla nostra domanda.

Partiamo dal Vangelo. Esso ci propone un brano di un discorso di Gesù, chiamato discorso escatologico, cioè discorso che riguarda gli ultimi avvenimenti, le ultime cose che accadranno e che stanno già accadendo. È da sottolineare che il Vangelo non fornisce notizie di curiosità, non annuncia scadenze. Infatti, davanti a Dio, il futuro si conquista col presente e si capisce partendo dal presente.

Cerchiamo di capire. Gesù si trovava a Gerusalemme e ha davanti a sé la fine imminente di questa città. È da notare che Gerusalemme è la città che ha decretato la crocifissione di Gesù. Il Maestro Divino si recava quasi tutti i giorni al Tempio. Quel Tempio che i suoi concittadini erano finalmente riusciti a costruire.  Era bello e imponente. Rivestito di marmi. Gli ebrei ne erano fieri! E quel giorno un discepolo lo fece notare a Gesù dicendo: «Maestro, guarda che pietre e che costruzioni! Gesù gli rispose: “Vedi queste grandi costruzioni? Non sarà lasciata qui pietra su pietra che non venga distrutta”» (cf Mc 13,1-2). Questa risposta sicuramente sarà stata una doccia fredda! Infatti i discepoli incuriositi chiedono al Signore: «quando accadranno queste cose e quale sarà il segno quando tutte queste cose staranno per compiersi?» (cf Mc 13,4). Essi volevano una data precisa. Ma Gesù li deluse in questo particolare, e passò a parlare delle vicende della fine dei tempi. E raccontò loro la parabola che abbiamo ascoltato.

È la storia di un uomo che prima di partire e lasciare la propria casa ha «dato il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vegliare». Gesù, inoltre, aggiunge: «Vegliate dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino; fate in modo che, giungendo all’improvviso, non vi trovi addormentati. Quello che dico a voi, lo dico a tutti: vegliate!». Ebbene, questa affermazione del Signore sta ad indicare che noi non sappiamo come e quando si compirà la vicenda umana dell’universo. Non sappiamo neppure quando e come si compirà la nostra piccola vicenda personale. Chi di noi sa a che ora arriverà sorella morte? Alla sera? A mezzanotte? Al canto del gallo? Al mattino? Nessuno di noi lo sa. Sappiamo solo che essa arriverà e giungerà all’improvviso! Per questo Gesù ci invita a vigilare affinché non ci trovi addormentati.

Purtroppo noi cristiani siamo addormentati! Infatti vi sono alcuni che si lasciano assorbire dalla fatica di procurarsi i beni materiali; altri che induriscono il cuore e ciò li porta all’egoismo, all’odio; altri ancora che tirano a campare e vivono, giorno dopo giorno, come capita.

Dunque quando il Signore arriverà troverà – ahimè – molti «addormentati».

 Abbiamo ricevuto dal Signore un grande dono: il tempo. E il Signore si aspetta che lo si occupi bene. Santa Caterina da Siena diceva ai suoi contemporanei: «Correte! Correte! Il tempo è breve!». Ciò significa che i cristiani non devono perdere tempo ma devono essere sempre attenti e vigilanti ed essere «irreprensibili nel giorno del Signore nostro Gesù Cristo» (II lettura).

Però noi sappiamo di essere peccatori e, in quanto tali, non dobbiamo scoraggiarci e arrenderci quando cadiamo, perché Dio, che è Padre e redentore, vuole la nostra salvezza.

Nella prima lettura, infatti, il profeta Isaia – vissuto sei secoli prima di Cristo – nella sua stupenda invocazione, ci ricorda che siamo peccatori e, pertanto, mette sulle nostre labbra le parole adatte per rivolgerci a Dio: « Tu, Signore, sei nostro padre, da sempre ti chiami nostro redentore. Perché, Signore, ci lasci vagare lontano dalle tue vie e lasci indurire il nostro cuore, così che non ti tema? Ritorna per amore dei tuoi servi […] Se tu squarciassi i cieli e scendessi!».

I cieli si sono squarciati, il Signore è disceso, si è fatto uno di noi, ci ha salvato. Noi lo attendiamo continuamente. Noi attendiamo il Signore Gesù, Agnello innocente, che prende su di sé le nostre colpe per lavarle nel suo sangue. E allora, con la chiesa, anche noi diciamo: «Vieni, Signore Gesù! Maranà tha!» (cf Ap 22,17.20; 1Cor 16,22).

Commento al Vangelo della XXXIII Domenica del Tempo Ordinario Anno A (15 novembre 2020)

Impieghiamo bene i nostri talenti

La seconda parabola del capitolo 25 del Vangelo di Matteo ci parla di un uomo che, partendo per un viaggio, consegna «i suoi beni», cioè un capitale enorme e di incalcolabile valore ai suoi servi – il talento, all’epoca di Gesù, equivaleva ai milioni di euro di oggi -, affinché durante la sua assenza lo custodiscano e lo facciano fruttare: «a uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì». Egli è figura di Dio il quale, attraverso suo Figlio Gesù Cristo, mette fiducia nell’uomo e trova gioia nell’offrire gratuitamente a ciascuno di noi i suoi doni (cf Mt 10,8); e fa questo in modo personalizzato, tenendo conto di ciò che noi siamo in grado di accogliere. Il punto consiste precisamente nel riconoscere e accogliere con gratitudine i doni personali ricevuti da Dio, senza fare paragoni con quelli altrui, ma impegnandosi a rispondere di essi con tutta la propria vita: nessun altro può farlo per me!

I primi due servi impiegano i talenti ricevuti – non viene detto come – e ne guadagnano altrettanti; il terzo invece scava una buca nel terreno e vi nasconde il suo unico talento, o meglio quello che egli ancora considera come «denaro del suo padrone». «Dopo molto tempo» ecco che il padrone ritorna e chiama separatamente i servi per chiedere loro conto dell’uso dei talenti. Saputo del frutto ottenuto dai primi due, li loda nello stesso modo: «Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone -, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone». Parole brevi ma estremamente significative, soprattutto alla luce della ricompensa promessa: entrare nella gioia del Signore significa infatti prendere parte al banchetto del Regno (cf Mt 8,11).

L’attenzione di Matteo, però, si concentra sul dialogo che intercorre tra il padrone e il terzo servo. Quest’ultimo comincia con il giustificarsi: «Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso». Perché dice che è duro? Il problema è perché questo servo si è costruito un’immagine perversa del suo padrone, come anche noi facciamo spesso con Dio. E sono le sue stesse parole a giudicarlo (cf Lc 19,22), a rivelare ciò che abita il suo cuore (cf Mt 12,34): «Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo». Paura di Dio – una storia che incomincia con Adamo (cf Gen 3,10) -; paura di esporsi al rischio di mettere a frutto ciò che si è ricevuto; paura di accogliere il dono come tale, come qualcosa che abbatte la logica del mio/tuo: tutto questo, non la durezza del padrone, ha paralizzato il servo, lo ha reso «malvagio e pigro».

Infine, dopo aver ripreso le parole usate dal servo nei suoi confronti, il signore gli rivela qual era il suo vero desiderio: che l’altro si desse da fare, che impiegasse fattivamente il talento ricevuto e, così facendo, guadagnasse e salvasse la sua vita (cf Lc 21,19).

Sì, chi non impiega i propri doni finisce inevitabilmente per perderli e per sprecare la vita; questo è il senso del commento di Gesù: «a chiunque ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha». È invece vigilante chi, con gratitudine, cerca di fare il miglior uso possibile del «poco» di cui dispone; e qualunque sia tale uso ce lo chiarirà Gesù stesso nella pagina del giudizio universale (cf Mt 25, 31-46).

Ebbene, in quale categoria di servi desideriamo essere per la venuta del Signore: «buoni e fedeli» o «pigri e malvagi»? L’apostolo Paolo ripete a noi ciò che scriveva ai cristiani di Tessalonica: «siete tutti figli della luce e figli del giorno; noi non apparteniamo alla notte, né alle tenebre. Non dormiamo dunque come gli altri, ma vigiliamo e siamo sobri» (II Lettura).

Commento al Vangelo della XXVII Domenica del Tempo Ordinario Anno A (4 ottobre 2020)

Il Figlio di Dio è la nostra salvezza

La prima lettura che è stata proclamata è uno sfogo appassionato del profeta Isaia, il quale, parlando a nome di Dio, esprime delusione e amarezza per il comportamento di Israele: e «Israele» siamo anche noi! Il profeta, attraversato dall’ispirazione, lascia uscire dal suo cuore alcuni interrogativi che sembrano singhiozzi di Dio: «Che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna che io non abbia fatto?». Lasciamoci interrogare da questo pianto, lasciamoci interpellare da questa divina sofferenza, lasciamoci scuotere da questo grido di amore deluso: è Dio, Dio stesso, che ci mette le mani sulle spalle e ci fissa negli occhi e ci chiede una ragione di tanta ingratitudine.

Notiamo innanzitutto, che il profeta chiama Israele «vigna del Signore». La vigna per l’Israelita era un bene preziosissimo: la vangava e la sgombrava dai sassi; la circondava con una siepe o con un muro; vigilava sul raccolto fino a restare a dormire in una apposita torre per difendere la vigna dai ladri e dagli animali. Dire allora: «voi siete la vigna del Signore», significava dire: «voi siete il bene prezioso di Dio!». Ma il profeta aggiunge: «Perché, mentre attendevo che producesse uva, essa ha prodotto acini acerbi?». L’uomo, purtroppo, delude Dio: è questa la terribile notizia che affiora spessissimo nella Scrittura (cf Gn 6,5-6). Ogni volta che deludiamo Dio dovremmo sentire brividi di sofferenza e di vergogna: noi non dobbiamo e non possiamo ferire il cuore paterno di Dio!

Nel vangelo Gesù riprende l’immagine calda e delicata usata da Isaia: questa immagine gli serve per tradurre splendidamente l’affetto, la tenerezza e la misericordia di Dio verso l’umanità. Egli dice: «c’era un uomo che possedeva un terreno e vi piantò una vigna. La circondò con una siepe, vi scavò una buca per il torchio e costruì una torre. La diede in affitto a dei contadini e se ne andò lontano». Gesù descrive tutta questa attenzione del padrone verso la vigna per dire che Dio ha seguito Israele senza risparmio di affetto, senza avarizia di doni, senza intervalli di amore. Dio ha veramente dato tutto: scegliendo Israele, Dio ha investito un immenso patrimonio di bontà! E la risposta di Israele? Purtroppo, nel momento del raccolto, Israele non solo ha rifiutato l’Amore, ma ha ucciso i profeti, donati con premura da Dio, perché erano scomodi e contestavano la vita infedele del popolo. Sono stati sempre osteggiati dal popolo, in particolare dalle sue guide religiose: si pensi solo alle persecuzioni subite da Geremia ad opera dei sacerdoti del tempio. È accaduto davvero l’inverosimile, l’assurdo! Il lamento di Dio, però, riguarda anche noi cristiani. Proviamo ad interrogarci: Dio è contento di noi? Può essere contento della nostra vita, delle nostre famiglie, dei nostri gruppi, delle nostre parrocchie? L’esame di coscienza potrebbe continuare…! È terribile scoprire di aver deluso Dio! Il vangelo di oggi ci ricorda questa tremenda possibilità e, nello stesso tempo, ci ammonisce che, deludendo Dio, la vigna è devastata.

Continuando il racconto della parabola, Gesù esclama: «Da ultimo mandò loro il proprio figlio dicendo: “Avranno rispetto per mio figlio!”». E così ha fatto. Ma gli operai della vigna (che siamo noi, tutti noi) hanno ucciso il figlio di Dio, Gesù, il quale sarà crocifisso fuori dalle mura di Gerusalemme (cf Mt 27, 31-33); e che «subì la passione fuori della porta della città» (cf Eb 13,12).

Gesù ha di fronte a sé proprio alcuni capi religiosi, ma significativamente non emette alcun giudizio; si limita a porre una domanda, lasciando che siano loro stessi a prendere coscienza della propria situazione: «Quando verrà dunque il padrone della vigna, che cosa farà a quei contadini?». Essi, annota l’evangelista, rispondono senza esitare: «Quei malvagi, li farà morire miseramente e darà in affitto la vigna ad altri contadini, che gli consegneranno i frutti a suo tempo»; pensano probabilmente che il duro verdetto non li tocchi direttamente ma riguardi altri. Ecco perché Gesù li rimanda ancora una volta all’autorità delle Scritture: «Non avete mai letto nelle Scritture: La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la pietra d’angolo; questo è stato fatto dal Signore ed è una meraviglia ai nostri occhi». Certo, essi avevano letto il Salmo (cf Sal 118, 22-23), così come conoscevano il passo di Isaia, ma non avevano compreso in profondità la Parola contenuta nelle Scritture: non potevano accettare la logica paradossale di Dio, il suo operare meraviglie attraverso ciò che è disprezzato dagli uomini (cf 1Cor 1,28), il suo salvare il mondo attraverso lo scandalo di un Messia crocifisso (cf 1Cor 1,17-25)! A questo punto, finalmente, gli interlocutori di Gesù capiscono che egli sta parlando di loro e cercano di catturarlo (cf Mt 21, 45-46): questa volta non ci riescono, ma per Gesù la fine si avvicina.

Prima di concludere questo difficile dialogo Gesù afferma: «a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti». Queste parole non riguardano solo i suoi interlocutori ma sono rivolte anche a noi, sempre tentati di pensare che il giudizio non ci tocchi, né personalmente né come chiesa. Esse sollecitano la nostra responsabilità a lasciare che Dio regni su di noi. Come? Facendo di Gesù la Pietra su cui fondare la nostra vita (cf 1Pt 2, 4-5).

Ebbene, nel Figlio crocifisso inizia la salvezza: non ripetiamo il tragico errore dei contemporanei di Gesù; accogliamo l’Amore di Dio e annunciamolo a tutti perché abbiano la gioia di sperimentare la bellezza del perdono.

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