Presentazione di Gesù al Tempio Anno B (2 febbraio 2024)

Cristo, luce delle genti, ci aiuti ad essere luce per gli altri!

Nel suo racconto dell’infanzia di Gesù, san Luca sottolinea come Maria e Giuseppe fossero fedeli alla Legge del Signore. Con profonda devozione compiono tutto ciò che è prescritto dopo il parto di un primogenito maschio. Si tratta di due prescrizioni molto antiche: una riguarda la madre e l’altra il bambino neonato. Per la donna è prescritto che si astenga per quaranta giorni dalle pratiche rituali, dopo di che offra un duplice sacrificio: un agnello in olocausto e una tortora o un colombo per il peccato; ma se la donna è povera, può offrire due tortore o due colombi (cf Lv 12,1-8). San Luca precisa che Maria e Giuseppe offrirono il sacrificio dei poveri – «una coppia di tortore o due giovani colombi» -, per evidenziare che Gesù è nato in una famiglia di gente semplice, umile ma molto credente: una famiglia appartenente a quei poveri di Israele che formano il vero popolo di Dio. Per il primogenito maschio, che secondo la Legge di Mosè è proprietà di Dio, era invece prescritto il riscatto, stabilito nell’offerta di cinque sicli, da pagare ad un sacerdote in qualunque luogo. Ciò a perenne memoria del fatto che, al tempo dell’Esodo, Dio risparmiò i primogeniti degli ebrei (cf Es 13,11-16).

È importante osservare che per questi due atti – la purificazione della madre e il riscatto del figlio – non era necessario andare al Tempio. Invece Maria e Giuseppe vogliono compiere tutto a Gerusalemme, e san Luca fa vedere come l’intera scena converga verso il Tempio, e quindi si focalizzi su Gesù che vi entra. Ed ecco che, proprio attraverso le prescrizioni della Legge, l’avvenimento principale diventa un altro, cioè la “presentazione” di Gesù al Tempio di Dio, che significa l’atto di offrire il Figlio dell’Altissimo al Padre che lo ha mandato (cf Lc 1,32.35).

Questa narrazione dell’Evangelista trova riscontro nella parola del profeta Malachia che abbiamo ascoltato all’inizio della prima Lettura: «Così dice il Signore Dio: “Ecco, io manderò un mio messaggero a preparare la via davanti a me e subito entrerà nel suo tempio il Signore che voi cercate; e l’angelo dell’alleanza, che voi sospirate, eccolo venire … Egli purificherà i figli di Levi … perché possano offrire al Signore un’offerta secondo giustizia». Chiaramente qui non si parla di un bambino, e tuttavia questa parola trova compimento in Gesù, perché «subito», grazie alla fede dei suoi genitori, Egli è stato portato al Tempio; e nell’atto della sua «presentazione», o della sua «offerta» personale a Dio Padre, traspare chiaramente il tema del sacrifico e del sacerdozio, come nel passo del profeta. Il bambino Gesù, che viene subito presentato al Tempio, è quello stesso che, una volta adulto, purificherà il Tempio (cf Gv 2,13-22; Mc 11,15,19 e par.) e soprattutto farà di se stesso il sacrificio e il sommo sacerdote della nuova Alleanza.

Questa è anche la prospettiva della Lettera agli Ebrei, così che il tema del nuovo sacerdozio viene rafforzato: un sacerdozio – quello inaugurato da Gesù – che è esistenziale: «Proprio per essere stato messo alla prova e aver sofferto personalmente, egli è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova» (cf Eb 2,18). E così troviamo anche il tema della sofferenza, molto marcato nel brano evangelico, là dove Simeone pronuncia la sua profezia sul Bambino e sulla Madre: «Egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione – e anche a te [Maria] una spada trafiggerà l’anima». La «salvezza» che Gesù porta al suo popolo, e che incarna in se stesso, passa attraverso la croce, attraverso la morte violenta che Egli vincerà e trasformerà con l’oblazione della vita per amore. Questa oblazione è già tutta preannunciata nel gesto della presentazione al Tempio, un gesto certamente mosso dalle tradizioni dell’antica Alleanza, ma intimamente animato dalla pienezza della fede e dell’amore che corrisponde alla pienezza dei tempi, alla presenza di Dio e del suo Santo Spirito in Gesù. Lo Spirito, in effetti, aleggia su tutta la scena della presentazione di Gesù al Tempio, in particolare sulla figura di Simeone, ma anche di Anna. È lo Spirito «Paraclito», che porta la «consolazione» di Israele e muove i passi e il cuore di coloro che la attendono. È lo Spirito che suggerisce le parole profetiche di Simeone e Anna, parole di benedizione, di lode a Dio, di fede nel suo Consacrato, di ringraziamento perché finalmente i nostri occhi possono vedere e le nostre braccia stringere «la sua salvezza».

«Luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele»: così Simeone definisce il Messia del Signore, al termine del suo canto di benedizione. Il tema della luce, che riecheggia il primo e il secondo carme del Servo del Signore, nel Deutero-Isaia (cf Is 42,6; 49,6), è fortemente presente in questa liturgia. Essa, infatti, è stata aperta da una suggestiva processione. Processione dove abbiamo portato i ceri accesi. Questo segno, specifico della tradizione liturgica di questa Festa, è molto espressivo. Manifesta la bellezza e il valore della vita consacrata come riflesso della luce di Cristo; un segno che richiama l’ingresso di Maria nel Tempio: la Vergine Maria, la Consacrata per eccellenza, portava in braccio la Luce stessa, il Verbo incarnato, venuto a scacciare le tenebre dal mondo con l’amore di Dio.

Oggi è anche la festa dei religiosi, la giornata della vita consacrata. Ebbene, come comportarsi quando un figlio, o una figlia, dovesse manifestare il proposito di consacrarsi totalmente al Signore, abbracciando la vita religiosa o sacerdotale? Ci sono famiglie, che pure si professano cristiane, dove la notizia di una vocazione viene accolta con tristezza, come fosse una disgrazia. Quante volte i genitori cercano di dissuadere i figli dal seguire la loro strada! Dovrebbe essere piuttosto un onore e una gioia per dei genitori cristiani, quando un figlio decide di dedicarsi e donarsi al Signore. I genitori, dunque, non devono ostacolare i loro figli in questa non facile scelta, ma accompagnarli, come accompagnano gli altri figli all’altare, nel giorno del loro matrimonio. Molti genitori, col passare degli anni, hanno sentito il bisogno di chiedere scusa al figlio sacerdote o alla figlia suora, per non averli capiti in tempo.

Alla luce di questa scena evangelica guardiamo alla vita consacrata come ad un incontro con Cristo: è Lui che viene a noi, portato da Maria e Giuseppe, e siamo noi che andiamo verso di Lui, guidati dallo Spirito Santo. Ma al centro c’è Lui. Lui muove tutto, Lui ci attira al Tempio, alla Chiesa, dove possiamo incontrarlo, riconoscerlo, accoglierlo, abbracciarlo.

La gioia della vita consacrata passa necessariamente attraverso la partecipazione alla Croce di Cristo. Così è stato per Maria Santissima. La sua è la sofferenza del cuore che forma un tutt’uno col Cuore del Figlio di Dio, trafitto per amore. Da quella ferita sgorga la luce di Dio, e anche dalle sofferenze, dai sacrifici, dal dono di se stessi che i consacrati vivono per amore di Dio e degli altri si irradia la stessa luce, che evangelizza le genti.

Nella festa della Presentazione, in ricordo di Gesù che fu proclamato da Simeone «luce delle genti», vengono benedette delle piccole candele che ognuno poi, se vuole, può portare a casa. Per questo la festa veniva chiamata popolarmente la festa della «Candelora», ossia la festa delle «luci». Ringraziamo Cristo per il dono della fede e preghiamolo affinché, per intercessione della Vergine Maria, ci aiuti ad essere luce per gli altri e vivere appieno la nostra vocazione per la salvezza del mondo. Amen!

 

Commento al Vangelo della solennità dell’Epifania Anno B (6 gennaio 2024)

Prostratisi lo adorarono!

San Matteo nel suo Vangelo scrive: «Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono». Il cammino esteriore di quegli uomini era finito. Erano giunti alla meta. Ma a questo punto per loro comincia un nuovo cammino, un pellegrinaggio interiore che cambia tutta la loro vita. Poiché sicuramente avevano immaginato questo Re neonato in modo diverso. Si erano appunto fermati a Gerusalemme per raccogliere presso il Re locale notizie sul promesso Re che era nato. Sapevano che il mondo era in disordine, e per questo il loro cuore era inquieto. Erano certi che Dio esisteva e che era un Dio giusto e benigno. E forse avevano anche sentito parlare delle grandi profezie in cui i profeti d’Israele annunciavano un Re che sarebbe stato in intima armonia con Dio, e che a nome e per conto di Lui avrebbe ristabilito il mondo nel suo ordine. Per cercare questo Re si erano messi in cammino: dal profondo del loro intimo erano alla ricerca del diritto, della giustizia che doveva venire da Dio, e volevano servire quel Re, prostrarsi ai suoi piedi e così servire essi stessi al rinnovamento del mondo. Appartenevano a quel genere di persone «che hanno fame e sete della giustizia» (cf Mt 5,6). Questa fame e questa sete avevano seguito nel loro pellegrinaggio – si erano fatti pellegrini in cerca della giustizia che aspettavano da Dio, per potersi mettere al servizio di essa.

Anche se gli altri uomini, quelli rimasti a casa, li ritenevano forse utopisti e sognatori – essi invece erano persone con i piedi sulla terra, e sapevano che per cambiare il mondo bisogna disporre del potere. Per questo non potevano cercare il bambino della promessa se non nel palazzo del Re. Ora però s’inchinano davanti a un bimbo di povera gente, e ben presto vengono a sapere che Erode – quel Re dal quale si erano recati – con il suo potere intendeva insidiarlo, così che alla famiglia non sarebbe restata che la fuga e l’esilio. Il nuovo Re, davanti al quale si erano prostrati in adorazione, si differenziava molto dalla loro attesa. Così dovevano imparare che Dio è diverso da come noi di solito lo immaginiamo. Qui cominciò il loro cammino interiore. Cominciò nello stesso momento in cui si prostrarono davanti a questo bambino e lo riconobbero come il Re promesso. Ma questi gesti gioiosi essi dovevano ancora raggiungerli interiormente.

Dovevano cambiare la loro idea sul potere, su Dio e sull’uomo e, facendo questo, dovevano anche cambiare se stessi. Ora vedevano: il potere di Dio è diverso dal potere dei potenti del mondo. Il modo di agire di Dio è diverso da come noi lo immaginiamo e da come vorremmo imporlo anche a Lui. Dio in questo mondo non entra in concorrenza con le forme terrene del potere. Non contrappone le sue divisioni ad altre divisioni. A Gesù, nell’Orto degli ulivi, Dio non manda dodici legioni di angeli per aiutarlo (cf Mt 26,53). Egli contrappone al potere rumoroso e prepotente di questo mondo il potere inerme dell’amore, che sulla Croce – e poi sempre di nuovo nel corso della storia – soccombe, e tuttavia costituisce la cosa nuova, divina, che poi si oppone all’ingiustizia e instaura il Regno di Dio. Dio è diverso – è questo che ora riconoscono. E ciò significa che ora essi stessi devono diventare diversi, devono imparare lo stile di Dio.

Erano venuti per mettersi a servizio di questo Re, per modellare la loro regalità sulla sua. Era questo il significato del loro gesto di ossequio, della loro adorazione. Di essa facevano parte anche i regali – oroincenso e mirra – doni che si offrivano a un Re ritenuto divino. L’adorazione ha un contenuto e comporta anche un dono. Volendo con il gesto dell’adorazione riconoscere questo bambino come il loro Re al cui servizio intendevano mettere il proprio potere e le proprie possibilità, gli uomini provenienti dall’Oriente seguivano senz’altro la traccia giusta. Servendo e seguendo Lui, volevano insieme con Lui servire la causa della giustizia e del bene nel mondo. E in questo avevano ragione. Ora però imparano che ciò non può essere realizzato semplicemente per mezzo di comandi e dall’alto di un trono. Ora imparano che devono donare se stessi – un dono minore di questo non basta per questo Re. Ora imparano che la loro vita deve conformarsi a questo modo divino di esercitare il potere, a questo modo d’essere di Dio stesso. Devono diventare uomini della verità, del diritto, della bontà, del perdono, della misericordia. Non domanderanno più: Questo a che cosa mi serve? Dovranno invece domandare: Con che cosa servo io la presenza di Dio nel mondo? Devono imparare a perdere se stessi e proprio così a trovare se stessi. Andando via da Gerusalemme, devono rimanere sulle orme del vero Re, al seguito di Gesù.

Ebbene, domandiamoci che cosa tutto questo significhi per noi. Poiché quello che abbiamo appena detto sulla natura diversa di Dio, che deve orientare la nostra vita, suona bello, ma resta piuttosto sfumato e vago. Per questo Dio ci ha donato degli esempi. I Magi provenienti dall’Oriente sono soltanto i primi di una lunga processione di uomini e donne che nella loro vita hanno costantemente cercato con lo sguardo la stella di Dio, che hanno cercato quel Dio che a noi, esseri umani, è vicino e ci indica la strada. È la grande schiera dei santi – noti o sconosciuti – mediante i quali il Signore, lungo la storia, ha aperto davanti a noi il Vangelo e ne ha sfogliato le pagine; questo, Egli sta facendo tuttora. Nelle loro vite, come in un grande libro illustrato, si svela la ricchezza del Vangelo. Essi sono la scia luminosa di Dio che Egli stesso lungo la storia ha tracciato e traccia ancora. I beati e i santi sono stati persone che non hanno cercato ostinatamente la propria felicità, ma semplicemente hanno voluto donarsi, perché sono state raggiunte dalla luce di Cristo. Essi ci indicano così la strada per diventare felici, ci mostrano come si riesce ad essere persone veramente umane. Nelle vicende della storia sono stati essi i veri riformatori che tante volte l’hanno risollevata dalle valli oscure nelle quali è sempre nuovamente in pericolo di sprofondare; essi l’hanno sempre nuovamente illuminata quanto era necessario per dare la possibilità di accettare – magari nel dolore – la parola pronunciata da Dio al termine dell’opera della creazione: «È cosa buona». Basta pensare a figure come San Benedetto, San Francesco d’Assisi, Santa Teresa d’Avila, Sant’Ignazio di Loyola, San Carlo Borromeo, ai fondatori degli Ordini religiosi dell’Ottocento che hanno animato e orientato il movimento sociale, o ai santi del nostro tempo – Massimiliano Kolbe, Edith Stein, Madre Teresa, Padre Pio. Contemplando queste figure impariamo che cosa significa «adorare», e che cosa vuol dire vivere secondo la misura del bambino di Betlemme, secondo la misura di Gesù Cristo e di Dio stesso.

I santi, abbiamo detto, sono i veri riformatori. Ora vorrei esprimerlo in modo ancora più radicale: Solo dai santi, solo da Dio viene la vera rivoluzione, il cambiamento decisivo del mondo. Nel secolo appena passato abbiamo vissuto le rivoluzioni, il cui programma comune era di non attendere più l’intervento di Dio, ma di prendere totalmente nelle proprie mani il destino del mondo. E abbiamo visto che, con ciò, sempre un punto di vista umano e parziale veniva preso come misura assoluta d’orientamento. L’assolutizzazione di ciò che non è assoluto ma relativo si chiama totalitarismo. Non libera l’uomo, ma gli toglie la sua dignità e lo schiavizza. Non sono le ideologie che salvano il mondo, ma soltanto il volgersi al Dio vivente, che è il nostro creatore, il garante della nostra libertà, il garante di ciò che è veramente buono e vero. La rivoluzione vera consiste unicamente nel volgersi senza riserve a Dio che è la misura di ciò che è giusto e allo stesso tempo è l’amore eterno. E che cosa mai potrebbe salvarci se non l’amore?

Sono molti coloro che parlano di Dio; nel nome di Dio si predica anche l’odio e si esercita la violenza. Perciò è importante scoprire il vero volto di Dio. I Magi dell’Oriente l’hanno trovato, quando si sono prostrati davanti al bambino di Betlemme. In Gesù Cristo, che per noi ha permesso che si trafiggesse il suo cuore, in Lui è comparso il vero volto di Dio. Lo seguiremo insieme con la grande schiera di coloro che ci hanno preceduto. Allora cammineremo sulla via giusta.

Questo significa che non ci costruiamo un Dio privato, non ci costruiamo un Gesù privato, ma che crediamo e ci prostriamo davanti a quel Gesù che ci viene mostrato dalle Sacre Scritture e che nella grande processione dei fedeli chiamata Chiesa si rivela vivente, sempre con noi e al tempo stesso sempre davanti a noi. Si può criticare molto la Chiesa. Noi lo sappiamo, e il Signore stesso ce l’ha detto: essa è una rete con dei pesci buoni e dei pesci cattivi, un campo con il grano e la zizzania. In fondo, è consolante il fatto che esista la zizzania nella Chiesa. Così, con tutti i nostri difetti possiamo tuttavia sperare di trovarci ancora nella sequela di Gesù, che ha chiamato proprio i peccatori. La Chiesa è come una famiglia umana, ma è anche allo stesso tempo la grande famiglia di Dio, mediante la quale Egli forma uno spazio di comunione e di unità attraverso tutti i continenti, le culture e le nazioni. Perciò siamo lieti di appartenere a questa grande famiglia che vediamo qui; siamo lieti di avere fratelli e amici in tutto il mondo.

«Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono». Ebbene sì. Questa non è una storia lontana, avvenuta tanto tempo fa. Questa è presenza. Qui nell’Ostia sacra Egli è davanti a noi e in mezzo a noi. Come allora, si vela misteriosamente in un santo silenzio e, come allora, proprio così svela il vero volto di Dio. Egli per noi si è fatto chicco di grano che cade in terra e muore e porta frutto fino alla fine del mondo (cf Gv 12,24). Egli è presente come allora in Betlemme. Ci invita a quel pellegrinaggio interiore che si chiama adorazione. Chiediamo prostrati al Re dei re, per intercessione della sua Santissima Madre, di guidarci nel nostro pellegrinaggio terreno. Amen!

  

Commento al Vangelo di Natale Messa del giorno Anno B (25 dicembre 2023)

Il Verbo si fece carne!

«Verbum caro factum est – Il Verbo si fece carne» (cf Gv 1,14). Sì. Dio si è fatto uomo, è venuto ad abitare in mezzo a noi. Dio non è lontano: è vicino, anzi, è l’«Emmanuele», Dio-con-noi. Non è uno sconosciuto: ha un volto, quello di Gesù.

È un messaggio sempre nuovo, sempre sorprendente, perché oltrepassa ogni nostra più audace speranza. Soprattutto perché non è solo un annuncio: è un avvenimento, un accadimento, che testimoni credibili hanno veduto, udito, toccato nella Persona di Gesù di Nazareth! Stando con Lui, osservando i suoi atti e ascoltando le sue parole, hanno riconosciuto in Gesù il Messia; e vedendolo risorto, dopo che era stato crocifisso, hanno avuto la certezza che Lui, vero uomo, era al tempo stesso vero Dio, il Figlio unigenito venuto dal Padre, pieno di grazia e di verità (cf Gv 1,14).

«Il Verbo si fece carne». Di fronte a questa rivelazione, riemerge ancora una volta in noi la domanda: come è possibile? Il Verbo e la carne sono realtà tra loro opposte; come può la Parola eterna e onnipotente diventare un uomo fragile e mortale? Non c’è che una risposta: l’Amore. Chi ama vuole condividere con l’amato, vuole essere unito a lui, e la Sacra Scrittura ci presenta proprio la grande storia dell’amore di Dio per il suo popolo, culminata in Gesù Cristo.

In realtà, Dio non cambia: Egli è fedele a Se stesso. Colui che ha creato il mondo è lo stesso che ha chiamato Abramo e che ha rivelato il proprio Nome a Mosè: Io sono colui che sono … il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe … Dio misericordioso e pietoso, ricco di amore e di fedeltà (cf Es 3,14-15; 34,6). Dio non muta, Egli è Amore da sempre e per sempre. È in Se stesso Comunione, Unità nella Trinità, ed ogni sua opera e parola mira alla comunione. L’incarnazione è il culmine della creazione. Quando nel grembo di Maria, per la volontà del Padre e l’azione dello Spirito Santo, si formò Gesù, Figlio di Dio fatto uomo, il creato raggiunse il suo vertice. Il principio ordinatore dell’universo, il Logos, incominciava ad esistere nel mondo, in un tempo e in uno spazio.

«Il Verbo si fece carne». La luce di questa verità si manifesta a chi la accoglie con fede, perché è un mistero d’amore. Solo quanti si aprono all’amore sono avvolti dalla luce del Natale. Così fu nella notte di Betlemme, e così è anche oggi. L’incarnazione del Figlio di Dio è un avvenimento che è accaduto nella storia, ma nello stesso tempo la oltrepassa. Nella notte del mondo si accende una luce nuova, che si lascia vedere dagli occhi semplici della fede, dal cuore mite e umile di chi attende il Salvatore. Se la verità fosse solo una formula matematica, in un certo senso si imporrebbe da sé. Se invece la Verità è Amore, domanda la fede, il “” del nostro cuore.

E che cosa cerca, in effetti, il nostro cuore, se non una Verità che sia Amore? La cerca il bambino, con le sue domande, così disarmanti e stimolanti; la cerca il giovane, bisognoso di trovare il senso profondo della propria vita; la cercano l’uomo e la donna nella loro maturità, per guidare e sostenere l’impegno nella famiglia e nel lavoro; la cerca la persona anziana, per dare compimento all’esistenza terrena.

L’«Emmanuele», Dio-con-noi, è venuto come Re di giustizia e di pace. Il suo Regno – lo sappiamo – non è di questo mondo, eppure è più importante di tutti i regni di questo mondo. È come il lievito dell’umanità: se mancasse, verrebbe meno la forza che manda avanti il vero sviluppo: la spinta a collaborare per il bene comune, al servizio disinteressato del prossimo, alla lotta pacifica per la giustizia. Credere nel Dio che ha voluto condividere la nostra storia è un costante incoraggiamento ad impegnarsi in essa, anche in mezzo alle sue contraddizioni. È motivo di speranza per tutti coloro la cui dignità è offesa e violata, perché Colui che è nato a Betlemme è venuto a liberare l’uomo dalla radice di ogni schiavitù.

«Il Verbo si fece carne», è venuto ad abitare in mezzo a noi, è l’Emmanuele, il Dio che si è fatto a noi vicino. Contempliamo insieme questo grande mistero di amore, lasciamoci illuminare il cuore dalla luce che brilla nella grotta di Betlemme. Amen!

 

 

Commento al Vangelo di Natale Messa dell’aurora Anno B (25 dicembre 2023)

Cristo è la vera pace!

«Un giorno santo è spuntato per noi». Un giorno di grande speranza: oggi è nato il Salvatore dell’umanità! La nascita di un bambino porta normalmente una luce di speranza a quanti lo attendono trepidanti. Quando nacque Gesù nella grotta di Betlemme, una «grande luce» apparve sulla terra; una grande speranza entrò nel cuore di quanti lo attendevano. Non fu certo «grande» alla maniera di questo mondo, perché a vederla, dapprima, furono solo Maria, Giuseppe e alcuni pastori, poi i Magi, il vecchio Simeone, la profetessa Anna: coloro che Dio aveva prescelto. Eppure, nel nascondimento e nel silenzio di quella notte santa, si è accesa per ogni uomo una luce splendida e intramontabile; è venuta nel mondo la grande speranza portatrice di felicità: «il Verbo si è fatto carne e noi abbiamo visto la sua gloria» (cf Gv 1,14)

«Dio è luce – afferma san Giovanni» (cf 1Gv 1,5). Infatti, quando Gesù nacque dalla Vergine Maria, la Luce stessa è venuta nel mondo: «Dio da Dio, Luce da Luce», professiamo nel Credo. In Gesù, scrive sant’Agostino, Dio ha assunto ciò che non era rimanendo ciò che era: «l’onnipotenza entrò in un corpo infantile e non fu sottratta al governo dell’universo” (cf Agostino, Serm 184, 1 sul Natale). Si è fatto uomo Colui che è il creatore dell’uomo per recare al mondo la pace. Per questo, nella notte di Natale, le schiere degli Angeli cantano: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli / e pace in terra agli uomini che egli ama» (cf Lc 2,14).

Ebbene, «oggi una splendida luce è discesa sulla terra». La Luce di Cristo è portatrice di pace. Nella Messa della notte la liturgia eucaristica si è aperta proprio con questo canto: «Oggi la vera pace è scesa per noi dal cielo» (Antifona d’ingresso). Anzi, solo la «grande» luce apparsa in Cristo può donare agli uomini la «vera» pace: ecco perché ogni generazione è chiamata ad accoglierla, ad accogliere il Dio che a Betlemme si è fatto uno di noi.

Questo è il Natale! Evento storico e mistero di amore, che da oltre duemila anni interpella gli uomini e le donne di ogni epoca e di ogni luogo. È il giorno santo in cui rifulge la «grande luce» di Cristo portatrice di pace! Certo, per riconoscerla, per accoglierla ci vuole fede, ci vuole umiltà. L’umiltà di Maria, che ha creduto alla parola del Signore, e ha adorato per prima, china sulla mangiatoia, il Frutto del suo grembo; l’umiltà di Giuseppe, uomo giusto, che ebbe il coraggio della fede e preferì obbedire a Dio piuttosto che tutelare la propria reputazione; l’umiltà dei pastori, dei poveri ed anonimi pastori, che accolsero l’annuncio del messaggero celeste e in fretta raggiunsero la grotta dove trovarono il bambino appena nato e, pieni di stupore, lo adorarono lodando Dio (Vangelo). I piccoli, i poveri in spirito: ecco i protagonisti del Natale, ieri come oggi; i protagonisti di sempre della storia di Dio, i costruttori infaticabili del suo Regno di giustizia, di amore e di pace.

Nel silenzio della notte di Betlemme Gesù nacque e fu accolto da mani premurose. Ed ora, in questo nostro Natale, in cui continua a risuonare il lieto annuncio della sua nascita redentrice, chi è pronto ad aprirgli la porta del cuore? Uomini e donne di questa nostra epoca, anche a noi Cristo viene a portare la luce, anche a noi viene a donare la pace! Ma chi veglia, nella notte del dubbio e dell’incertezza, con il cuore desto e orante? Chi attende l’aurora del giorno nuovo tenendo accesa la fiammella della fede? Chi ha tempo per ascoltare la sua parola e lasciarsi avvolgere dal fascino del suo amore? Sì! È per tutti il suo messaggio di pace; è a tutti che viene ad offrire se stesso come certa speranza di salvezza.

La luce di Cristo, che viene ad illuminare ogni essere umano, possa finalmente rifulgere, e sia consolazione per quanti si trovano nelle tenebre della miseria, dell’ingiustizia, della guerra.

«Venite tutti ad adorare il Signore». Con Maria, Giuseppe e i pastori, con i Magi e la schiera innumerevole di umili adoratori del neonato Bambino, che lungo i secoli hanno accolto il mistero del Natale, anche noi, lasciamo che la luce di questo giorno si diffonda dappertutto: entri nei nostri cuori, rischiari e riscaldi le nostre case, porti serenità e speranza nelle nostre città, dia al mondo la pace. Il Signore, che ha fatto risplendere in Cristo il suo volto di misericordia, ci appaghi della sua felicità e ci renda messaggeri della sua bontà. Amen!

 

Commento al Vangelo di Natale Messa vespertina Anno B (24 dicembre 2023)

Signore vieni a salvarci!

Cristo è nato per noi! Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini che Egli ama. A tutti giunga l’eco dell’annuncio di Betlemme, che la Chiesa Cattolica fa risuonare in tutti i continenti, al di là di ogni confine di nazionalità, di lingua e di cultura. Il Figlio di Maria Vergine è nato per tutti, è il Salvatore di tutti.

Così lo invoca un’antica antifona liturgica: «O Emmanuele, nostro re e legislatore, speranza e salvezza dei popoli: vieni a salvarci, o Signore nostro Dio». Veni ad salvandum nos! Vieni a salvarci! Questo è il grido dell’uomo di ogni tempo, che sente di non farcela da solo a superare difficoltà e pericoli. Ha bisogno di mettere la sua mano in una mano più grande e più forte, una mano che dall’alto si tenda verso di lui. Questa mano è Cristo, nato a Betlemme dalla Vergine Maria. Lui è la mano che Dio ha teso all’umanità, per farla uscire dalle sabbie mobili del peccato e metterla in piedi sulla roccia, la salda roccia della sua Verità e del suo Amore (cf Sal 40,3).

Sì, questo significa il nome di quel Bambino, il nome che, per volere di Dio, gli hanno dato Maria e Giuseppe: si chiama Gesù, che significa «Salvatore» (cf Mt 1,21; Lc 1,31). Egli è stato inviato da Dio Padre per salvarci soprattutto dal male profondo, radicato nell’uomo e nella storia: quel male che è la separazione da Dio, l’orgoglio presuntuoso di fare da sé, di mettersi in concorrenza con Dio e sostituirsi a Lui, di decidere che cosa è bene e che cosa è male, di essere il padrone della vita e della morte (cf Gen 3,1-7). Questo è il grande male, il grande peccato, da cui noi uomini non possiamo salvarci se non affidandoci all’aiuto di Dio, se non gridando a Lui: “Veni ad salvandum nos! – Vieni a salvarci!”.

Il fatto stesso di elevare al Cielo questa invocazione, ci pone già nella giusta condizione, ci mette nella verità di noi stessi: noi infatti siamo coloro che hanno gridato a Dio e sono stati salvati. Dio è il Salvatore, noi quelli che si trovano nel pericolo. Lui è il medico, noi i malati. Riconoscerlo, è il primo passo verso la salvezza, verso l’uscita dal labirinto in cui noi stessi ci chiudiamo con il nostro orgoglio. Alzare gli occhi al Cielo, protendere le mani e invocare aiuto è la via di uscita, a patto che ci sia Qualcuno che ascolta, e che può venire in nostro soccorso.

Gesù Cristo è la prova che Dio ha ascoltato il nostro grido. Non solo! Dio nutre per noi un amore così forte, da non poter rimanere in Se stesso, da uscire da Se stesso e venire in noi, condividendo fino in fondo la nostra condizione (cf Es 3,7-12). La risposta che Dio ha dato in Gesù al grido dell’uomo supera infinitamente la nostra attesa, giungendo ad una solidarietà tale che non può essere soltanto umana, ma divina. Solo il Dio che è amore e l’amore che è Dio poteva scegliere di salvarci attraverso questa via, che è certamente la più lunga, ma è quella che rispetta la verità sua e nostra: la via della riconciliazione, del dialogo, della collaborazione.

Perciò, rivolgiamoci al Bambino di Betlemme, al Figlio della Vergine Maria, e diciamo: “Vieni a salvarci!”. Lo ripetiamo in unione spirituale con tante persone che vivono situazioni particolarmente difficili, e facendoci voce di chi non ha voce.

Il Signore soccorra l’umanità ferita dai tanti conflitti, che ancora oggi insanguinano il Pianeta. Egli, che è il Principe della Pace, doni pace e stabilità alla Terra che ha scelto per venire nel mondo.

Rivolgiamo lo sguardo alla Grotta di Betlemme: il Bambino che contempliamo è la nostra salvezza! Lui ha portato al mondo un messaggio universale di riconciliazione e di pace. Apriamogli il nostro cuore, accogliamolo nella nostra vita. Ripetiamogli con fiducia e speranza: “Veni ad salvandum nos!”. Amen!

 

 

2 febbraio: Presentazione di Gesù al Tempio Anno A

Siamo sempre ceri accesi!

 

La legge mosaica prescriveva che, quaranta giorni dopo la nascita del primo figlio, i genitori si recassero al tempio di Gerusalemme per offrire il loro primogenito al Signore e per la purificazione rituale della madre. Così fecero anche Maria e Giuseppe. Il rito serviva a consacrare il primogenito a Dio, in ricordo del fatto che Dio aveva, un tempo, salvato i primogeniti d’Israele in Egitto.

I Vangeli danno rilievo all’episodio soprattutto perché coincise con un momento di grande rivelazione intorno alla persona di Cristo. Il vecchio Simeone infatti, al vedere il Bambino Gesù, fu preso da grande commozione e, ispirato dallo Spirito Santo, lo salutò definendolo «luce delle genti», «gloria del popolo d’Israele» e «segno di contraddizione». Ma io vorrei mettere in luce un motivo di interesse più generale dell’episodio, prendendo lo spunto dalle parole iniziali in cui si dice che Maria e Giuseppe «portarono il bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore» e anche dalle parole conclusive che ci permettono di gettare uno sguardo sulla vita intima della Santa Famiglia di Nazaret: «Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui».

Nel cristianesimo il rito della Presentazione non esiste più, però il significato spirituale di esso permane ed è attuale ancora oggi. Anche i genitori cristiani, in altre parole, devono «presentare i loro bambini a Dio» e aiutarli poi a «crescere in sapienza e grazia», cioè non solo fisicamente e intellettualmente, ma anche spiritualmente.

Che cosa può significare oggi «presentare il proprio bambino a Dio»? Significa riconoscere che i figli sono un dono di Dio, che appartengono a lui, prima ancora che al papà e alla mamma. È Dio infatti, secondo la dottrina cristiana, che infonde nel bambino, al momento stesso della concezione, il principio spirituale che chiamiamo anima. La Bibbia, a tal proposito, ci presenta una madre che, guardando i suoi sette figli, esclama, quasi con stupore: «Non so come siate apparsi nel mio seno; non io vi ho dato il respiro e la vita, né io ho dato forma alle membra di ciascuno di voi […] ma il Creatore dell’universo, che ha plasmato all’origine l’uomo» (cf 2Mac 7,22-23).

Ma non basta offrire i figli al Signore una volta sola, all’inizio della vita, ma sempre. Ciò significa che i genitori devono preoccuparsi sempre dell’educazione cristiana dei figli. I genitori sono i primi evangelizzatori dei figli. Lo sono, a volte senza accorgersi, con le preghiere che insegnano, le risposte che danno alle loro domande, i giudizi che emettono in loro presenza.

Nella festa della Presentazione, in ricordo di Gesù che fu proclamato da Simeone «luce delle genti», vengono benedette delle piccole candele che ognuno poi, se vuole, può portare a casa. Per questo la festa veniva chiamata popolarmente la festa della «Candelora». Io credo che il compito dei genitori nei confronti dei figli è simboleggiato molto bene da questa piccola candela benedetta.

A tal proposito vi racconto una storia. Un giorno un ragazzo partì per un lungo viaggio. Era ancora buio quando uscì di casa e sua madre gli mise in mano una lucerna per rischiarargli la strada, raccomandandogli di non separarsene per nessuna ragione. Camminò per ore alla luce di quella lucerna, ma poi sorse il sole e il lucignolo che aveva in mano cominciò a impallidire, finché, a mezzogiorno, non si vedeva proprio più e fu tentato di buttarlo via. Si ricordò però della promessa fatta alla mamma e continuò a tenere in mano la piccola lucerna. Camminò ancora a lungo, finché il sole cominciò a tramontare e si fece di nuovo buio intorno a lui. La fiammella che aveva in mano cominciava di nuovo a farsi notare, finché, fattosi buio completo, si accorse che era l’unica cosa che gli permetteva di proseguire e portare a termine il suo viaggio. E fu ben felice di averla ancora con lui.

Così è la fede che un bambino riceve dai genitori nell’iniziare il lungo viaggio della vita. Dapprima è tutto, esiste solo quella. Poi si accendono altre luci, altri interessi e valori vengono a occupare la mente. La fede che si aveva da bambini spesso viene eclissata e non ci si accorge neppure più di averla. Ma viene la sera, il tempo in cui le molti luci che ci hanno abbagliato nella vita, una dopo l’altra, si spengono o non rischiarano più. E allora riscopriamo la nostra fede da quella piccola candela ricevuta simbolicamente nel battesimo e alimentata nella famiglia. Non bisogna dunque scoraggiarsi dal consegnare ai figli la candela della vita. Ma il mezzo migliore, se si vuole trasmettere ai figli la fede, è di viverla con essi e dinanzi ad essi, senza mai scoraggiarsi. Diceva san Francesco di Sales ad una mamma che quando non si può più parlare di «Dio ai figli» è giunto il momento di parlare a «Dio dei figli», cioè di pregare per loro.

Oggi è anche la festa dei religiosi, la giornata della vita consacrata. Ebbene, come comportarsi quando un figlio, o una figlia, dovesse manifestare il proposito di consacrarsi totalmente al Signore, abbracciando la vita religiosa o sacerdotale? Ci sono famiglie, che pure si professano cristiane, dove la notizia di una vocazione viene accolta con tristezza, come fosse una disgrazia. Quante volte i genitori cercano di dissuadere i figli dal seguire la loro strada! Dovrebbe essere piuttosto un onore e una gioia per dei genitori cristiani, quando un figlio decide di dedicarsi e donarsi al Signore. I genitori, dunque, non devono ostacolare i loro figli in questa non facile scelta, ma accompagnarli, come accompagnano gli altri figli all’altare, nel giorno del loro matrimonio. Molti genitori, col passare degli anni, hanno sentito il bisogno di chiedere scusa al figlio sacerdote o alla figlia suora, per non averli capiti in tempo.

Concludo con un episodio commovente della vita di santa Teresina del Bambino Gesù. Ella ebbe il sostegno dal papà (la mamma era morta) nel realizzare la sua vocazione. Lei voleva entrare nel Carmelo, ma incontrava difficoltà perché troppo giovane. Il padre l’accompagnò dalla Francia fino a Roma, per chiedere personalmente al papa Leone XIII il permesso di entrare in clausura e alla fine, insieme, la spuntarono. In una lettera al padre, ella così scriveva dal Carmelo: «Mi sforzerò, papà, di diventare una grande santa». Come sappiamo ci è riuscita. Non solo santa, ma anche Dottore della Chiesa. I genitori di santa Teresina sono il migliore esempio di che cosa significa «presentare i figli al Signore»!

Ebbene, siate sempre ceri accesi per i vostri figli. Maria Santissima, la Donna Consacrata, ci aiuti ad essere luce per gli altri e vivere appieno la nostra vocazione per la salvezza del mondo. Amen.

 

Commento al Vangelo nella festa della santa Famiglia Anno A (30 dicembre 2022)

Confidare sempre nella «Provvidenza di Dio»!

La liturgia ci invita a celebrare oggi la festa della Santa Famiglia di Nazaret. In effetti, guardando il presepe, noi vediamo Gesù insieme con la Madonna e san Giuseppe, nella grotta di Betlemme. Dio, quindi, ha voluto nascere in una famiglia umana, ha voluto avere una madre e un padre, come noi.

E oggi il vangelo ci presenta la Santa Famiglia sulla via dolorosa dell’esilio, in cerca di rifugio in Egitto. Giuseppe, Maria e Gesù sperimentano la condizione drammatica dei profughi, segnata da paura, incertezza, disagi. Nel vangelo abbiamo ascoltato che «i Magi erano appena partiti», quando «un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: “Alzati, prendi con te il bambino e sua madre e fuggi in Egitto… perché Erode sta cercando il bambino per ucciderlo”». Ed ecco che la luce sfolgorante cede il posto alla notte. Su Betlemme ha sovranità il re Erode il grande, il quale, turbato dalla ricerca del neonato «re dei Giudei» (cf Mt 2, 2) da parte dei Magi, decide misure drastiche per eliminarlo. È da notare che appena nato, Gesù è osteggiato dai potenti di questo mondo, come avverrà lungo tutta la sua vita. Dopo la morte di Erode, dice ancora Matteo, vi è un secondo invito a Giuseppe da parte dell’angelo: «Alzati, prendi con te il bambino e sua madre e va’ nel paese d’Israele».

In questo racconto si possono cogliere due momenti decisivi per la Santa Famiglia: a Betlemme, quando il re Erode vuole uccidere il Bambino, perché scorge in lui un concorrente al trono; e in Egitto, quando, passato il pericolo, la Santa Famiglia può far ritorno dall’esilio a Nazaret. Osserviamo anzitutto la paterna premura di Dio – la divina premura del Padre per il Figlio incarnato – e la premura umana di Giuseppe. Accanto a lui, percepiamo la presenza silenziosa e trepida di Maria, che nel suo cuore medita sulla premura di Dio e sull’obbedienza sollecita di Giuseppe. Noi, questa premura di Dio la chiamiamo «Divina Provvidenza»; mentre la premura umana potrebbe essere definita «l’umana provvidenza». E in virtù di questa «provvidenza» che chi è padre o madre si adopera al fine di evitare ogni sorta di male, e garantire tutto il bene possibile ai figli e alla famiglia.

La nascita di ogni bambino porta con sé qualcosa di questo mistero! Lo sanno bene i genitori che lo ricevono come un dono e che, spesso, così ne parlano. A tutti noi è capitato di sentir dire a un papà e a una mamma: «Questo bambino è un dono, un miracolo!». Quant’è importante, allora, che ogni bambino, venendo al mondo, sia accolto dal calore di una famiglia! Non importano le comodità esteriori: Gesù è nato in una stalla e come prima culla ha avuto una mangiatoia, ma l’amore di Maria e di Giuseppe gli ha fatto sentire la tenerezza e la bellezza di essere amati. Di questo hanno bisogno i bambini: dell’amore del padre e della madre. E’ questo che dà loro sicurezza e che, nella crescita, permette la scoperta del senso della vita. La Santa Famiglia di Nazaret ha attraversato molte prove, però essa ha sempre confidato nella Divina Provvidenza!

Tutti noi, oggi, siamo invitati a guardare alla Santa Famiglia di Nazaret, esempio per tutte le famiglie cristiane e umane. Cresca in ogni casa la fede e vi regnino l’amore, la concordia, la solidarietà, il rispetto reciproco e l’apertura alla vita.

Affidiamo alla Madonna e a san Giuseppe tutte le famiglie, affinché non si scoraggino di fronte alle prove e alle difficoltà, ma coltivino sempre l’amore coniugale e si dedichino con fiducia al servizio della vita e dell’educazione.

Maria, Regina della famiglia, aiuti le famiglie dei credenti a rispondere sempre fedelmente alla loro vocazione così che possano essere autentiche «chiese domestiche». Amen!

Commento al Vangelo della IV Domenica di Avvento Anno A (18 dicembre 2022)

Gli sarà dato il nome di Emmanuele, Dio con noi!

In questa quarta ed ultima domenica di avvento, la liturgia della parola ci parla dell’annuncio e della venuta del Figlio di Dio. Nel brano evangelico Matteo scrive che Giuseppe, sposo di Maria e «uomo giusto», ossia uomo capace di vivere nella giustizia, nella pace, nell’amore fraterno fino alla compassione, e al perdono, pensò non di esporre alla vergogna e al disprezzo la sua promessa sposa – la quale si era trovata incinta per opera dello Spirito Santo -, «ma di ripudiarla in segreto». E, mentre quest’uomo di fede medita nel suo cuore su quanto gli sta accadendo, un angelo del Signore, annota l’evangelista: «gli apparve in sogno…e gli disse: “Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo”». La grande rivelazione è spiegata dal messaggero divino con questo annuncio: «ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù, egli…salverà il suo popolo dai suoi peccati». Il bambino che nascerà sarà dunque chiamato con un Nome che indica la sua totale appartenenza a Dio e, nello stesso tempo, la missione che egli porterà a compimento vivendo a servizio degli uomini suoi fratelli: Gesù, “Jeshuʻa”, che significa «il Signore salva» e, quindi, Salvatore.

Per Giuseppe lo scandalo si trasforma così in rivelazione ma soprattutto in occasione di obbedienza a Dio a cui «nulla è impossibile» (cf Lc 1, 37). L’autore sacro, a questo punto, commenta: «Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: “Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele”, che significa “Dio con noi”». Ebbene sì, «alla pienezza del tempo» (cf Gal 4, 4), ossia al compimento di tutte le promesse e alleanze, Dio ha visitato il suo popolo in modo unico e irripetibile: colui – come afferma l’apostolo Paolo -, che era stato «promesso per mezzo dei suoi profeti nelle sacre Scritture» si è fatto ʻImmanu-El, Dio con noi in Gesù, il Figlio della Vergine Maria, il Messia «nato dal seme di Davide secondo la carne».

Matteo conclude questo episodio scrivendo che Giuseppe, destatosi «dal sonno, fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa». Questa conclusione esprime tutta la grandezza di Giuseppe, che consiste nella sua fede-obbedienza: come Maria anche lui ha accettato di fare la volontà dell’Altissimo, accettando di fare ciò che forse non riusciva a comprendere pienamente. È da notare, inoltre, che nessuna parola esce dalla sua bocca, eppure con il suo comportamento di filiale fiducia e obbedienza egli vive la buona novella che più tardi sarà annunciata da Cristo Gesù, Figlio di Dio e secondo la Legge anche figlio suo.

Chiediamo a Dio, Padre buono e misericordioso, affinché per intercessione di san Giuseppe, conceda anche a noi di accogliere, con l’ascolto della sua parola e nell’obbedienza della fede, il Verbo della vita, Gesù Signore nostro. Amen!

Commento nella festa della Presentazione di Gesù al Tempio Anno C (2 febbraio 2022)

Luce che illumina le genti

Ogni anno, il 2 febbraio, celebriamo una festa significativa: La Presentazione di Gesù al tempio. Di essa si ha memoria a partire dal IV secolo a Gerusalemme. Dopo essersi diffusa in Siria, nel VI secolo, assunse a Costantinopoli con il nome di “Incontro” (in greco Hypapantè). Passando in occidente, nella seconda metà del VI secolo, sarà celebrata quaranta giorni dopo la nascita del Signore, cioè il 2 febbraio. Verso il 750, in Gallia assunse il nome, rimasto fino al 1969, di “Purificazione della beata Vergine Maria”. A Roma, dove la messa veniva celebrata all’ alba, il papa Sergio I (687-701) la fece precedere da una processione nella quale ognuno teneva in mano un cero: di qui il nome popolare di “Candelora”. Ancora oggi la liturgia prevede la processione, cui si è aggiunta, dal X secolo, anche la benedizione delle candele. Con il suo nome attuale di “Presentazione di Gesù al tempio”, questa festa ha ritrovato la sua originaria natura di celebrazione legata al mistero dell’incarnazione del Figlio di Dio. La candela, dunque la luce, che viene consegnata nelle nostre mani ci unisce non solo a Maria e Giuseppe che salgono al tempio, ma anche a Simeone e Anna che accolgono il bambino che è la «luce che illumina le genti».

L’episodio, raccontato dall’ evangelista Luca, narra che Maria e Giuseppe quaranta giorni dopo la nascita di Gesù lo portarono al tempio di Gerusalemme, per compiere un rito che era prescritto dalla Legge. Di quale rito si trattava? Gli israeliti consideravano ogni figlio primogenito come proprietà del Signore che aveva risparmiato i primogeniti degli ebrei dalla morte la notte dell’esodo dall’ Egitto. Per questo lo portavano al tempio, come gesto di riconoscimento di questa proprietà, e lo riscattavano con un’offerta proporzionata alle possibilità economiche di ogni famiglia. Gesù era il primogenito e Maria e Giuseppe, mescolati alle altre coppie che sono lì per lo stesso motivo, da cittadini ubbidienti, fedeli alla legge mosaica, compirono coscienziosamente quel loro dovere compiendo i riti prescritti, e riscattarono Gesù con l’offerta dei poveri, cioè «offrire in sacrificio una coppia di tortore o di giovani colombi, come prescrive la legge del Signore». I ricchi, invece, usavano un olocausto di bestiame grasso.

È da notare che l’infante Gesù appare come un bambino qualunque infatti, nella lettera agli Ebrei l’autore sacro scrive che: «doveva rendersi in tutto simile ai fratelli» (II Lettura). Gesù, dunque, assume in pieno la condizione umana nascendo in una famiglia all’ apparenza simile alle altre. San Paolo, nella lettera ai Galati scrive: «Dio mandò il suo Figlio, nato da donna» (Gal 4, 4).

Ma di fatto Gesù con il suo ingresso nel tempio viene a dare compimento alle parole del profeta Malachia: «entrerà nel suo tempio il Signore che voi cercate» (I Lettura). L’evangelista oltre alla santa Famiglia menziona due vegliardi: Simeone e Anna. Di Simeone dice che è «uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione d’Israele»; di Anna, invece, dice che era una «profetessa, vedova e aveva ottantaquattro anni». Essi attendevano il Signore e, «mossi dallo Spirito», precisa Luca, vanno al tempio, riconoscono, solo loro, in quel bambino il Salvatore, e traboccano di gioia. Simeone ha trovato lo scopo della sua vita in questo momento e ora può addormentarsi in pace. Egli accogliendo il bambino tra le braccia e benedicendo Dio dice: «Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli: luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele».

In Simeone e Anna sono rappresentati i giusti d’Israele che si incontrano col Signore, la loro attesa è compiuta, la loro preghiera esaudita. In questi due vegliardi possiamo vedervi oggi anche le persone avanti negli anni, tutti gli anziani. Simeone e Anna sono un modello per vivere da anziani. È sempre più facile nella nostra società scorgere uomini e donne, avanti negli anni, che ormai pensano con tristezza e rassegnazione al proprio futuro; e l’unica consolazione, quando è possibile, è il rimpianto della giovinezza passata. Il vangelo di oggi sembra dire che quello della vecchiaia non è un tempo da subire tristemente ma da vivere con speranza.

L’evangelista, inoltre, annota dicendo che Simeone annuncia a Maria: «anche a te una spada trafiggerà l’anima». Maria viene così associata al mistero doloroso: anche lei ha sofferto, in silenzio, ai piedi della croce, tanto è vero che la chiesa la invoca come Vergine Addolorata.

Da questa festa ne scaturisce una considerazione: la luce di queste candele deve farci impegnare a diventare luce, cioè essere trasparenti nella nostra vita.

Chiediamo al Signore affinché illumini il nostro pellegrinaggio terreno, tante volte sbandato e distratto, nel dare testimonianza del nostro essere cristiani ed essere coerenti col nostro credo.

Commento al Vangelo nella solennità dell’Epifania Anno C (6 gennaio 2022)

Abbiamo visto la sua stella e siamo venuti ad adorarlo

L’Epifania è una festa importante nel ciclo liturgico del Natale perché è la manifestazione di Gesù a tutti i popoli, simbolicamente rappresentati dai Magi, che offrono oro (che significa regalità di Cristo), incenso (divinità di Gesù), mirra (umanità del Signore). Il termina epifania deriva dal greco antico epifàneia (manifestazione, apparizione, venuta, presenza divina).

Il brano evangelico, che narra questa manifestazione, inizia dicendo: «Nato Gesù a Betlemme di Giudea al tempo del re Erode». L’episodio avviene «al tempo del re Erode», ma il suo tempo sta per scadere, perché il tempo appartiene a Dio e chi pensa di diventarne padrone si illude. Erode, all’udire della nascita di Gesù, si sente minacciato: «Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? […] All’udire questo, il re Erode restò turbato». Erode non voleva questo nuovo re. Egli credeva soltanto in se stesso e pensava a proteggere il suo potere. Questo nuovo re che era nato, chiunque egli fosse, era considerato un suo antagonista e per questo doveva morire. Dunque, da politico astuto, nasconde il suo progetto omicida e con molta diplomazia si rivolge ai Magi, che aveva fatto chiamare segretamente, e dice loro: «Andate e informatevi accuratamente sul bambino e, quando l’avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch’io venga ad adorarlo». Erode invia i Magi ma lui non si impegna e non si muove a cercare Gesù, come non si muovono i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo i quali erano a conoscenza della profezia. Infatti, costoro, riuniti dal re per sapere il luogo dove doveva nascere il Cristo risposero: «A Betlemme di Giudea, perché così è scritto per mezzo del profeta: “E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero l’ultima delle città principali di Giuda: da te infatti uscirà un capo che sarà il pastore del mio popolo, Israele”». Invece i Magi, sapienti che scrutavano e meditavano i segni della natura, si sono mossi. Hanno compiuto un lungo e faticoso viaggio. Da oriente sono venuti a Gerusalemme seguendo la sola luce di una stella e alla fine hanno trovato il figlio di Dio nato da Maria. L’evangelista Luca dice che: «Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua Madre, si prostrarono e lo adorarono». Questa è la frase centrale del brano evangelico perché riguarda l’incontro dei Magi con Gesù.

Erode è l’uomo che vive soltanto per sé, è l’uomo senza Dio, senza umiltà, pieno di orgoglio. I capi dei sacerdoti e gli scribi sono coloro che pur conoscendo la verità restano prigionieri di un passato che non apre al futuro, alla novità che Dio mette davanti ai loro occhi. Sono persone che assecondano il loro padrone e per questo sono persone non libere e non vive. I Magi, invece, osservano il cielo, vedono una stella, splendente, e sentono che devono muoversi e lo fanno, perché quella stella indica loro una strada da percorrere. Hanno sopportato la fatica del viaggio con tutti i dubbi e le incertezze che esso ha comportato, e hanno gustato, infine, la gioia di vedere il bambino: «Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo».

In tutti noi c’è il bisogno di conoscere il Signore, e questo bisogno lo ha messo Dio dentro di noi. Sono tanti i modi attraverso i quali Dio si fa sentire, bussa alla nostra porta. Spesso diciamo che siamo alla ricerca di Dio, in realtà è Dio per primo che è alla ricerca di noi.

Questa ricerca di Dio comporta fatica. I pastori devono vincere il torpore della notte, liberarsi dal tepore dei loro mantelli, incamminarsi nella notte, fidarsi di voci che potrebbero essere anche suggestioni. Per i Magi il cammino è più duro: a volte la stella si oscura, scompare alla loro vista, incontrano persone che «sanno», ma che rimangono nell’indifferenza o che, pur turbate, non si uniscono a loro nella ricerca del neonato re dei giudei. Anche per noi ci sono momenti di buio, di paura, di turbamento, di dubbio. Si può rimanere nella nostra religiosità, nei nostri riti, nelle nostre comodità senza muoverci. Perché muoverci? Perché rischiare? Se non ci muoviamo e se non cambiamo vita vivremo nei nostri pregiudizi, nel nostro egoismo, nel nostro orgoglio. Se non adoriamo Dio, e solo Dio, non saremo mai un segno di Dio per il mondo. Chiediamoci: siamo una epifania-manifestazione di Dio? Siamo un segno del vero ed unico Dio, che è umile, povero, mite e paziente?

I Magi obbediscono all’angelo perché sanno distinguere la verità dalla falsità e percorrono una nuova strada per tornare alla loro terra: «Avvertiti in sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro paese». Noi sappiamo distinguere il bene dal male? San Paolo nella lettera ai Romani scrive: «in me c’è il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio» (Rm 7, 18-19). I Magi non hanno avuto difficoltà ad inginocchiarsi davanti a quel bambino e ad offrirgli dei doni molto preziosi. Noi davanti a chi ci inginocchiamo? Davanti a Dio o davanti agli uomini? Davanti al Re dei re o davanti al denaro?

Coraggiosamente togliamo il lievito di Erode dalla nostra vita, rinunciamo al potere, all’orgoglio, al piacere personale, agli agi e alle comodità e – come dice il profeta Isaia (I Lettura): «Alzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce, la gloria del Signore brilla sopra di te».

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