Commento al Vangelo della VI Domenica del Tempo Ordinario Anno B (11 febbraio 2024)

Lasciamoci toccare e purificare da Cristo Gesù, e usiamo misericordia verso i nostri fratelli!

 Domenica scorsa abbiamo visto che Gesù, nella sua vita pubblica, ha guarito molti malati, rivelando che Dio vuole per l’uomo la vita, la vita in pienezza. Il Vangelo di questa domenica ci mostra Gesù a contatto con la forma di malattia considerata a quei tempi la più grave, tanto da rendere la persona “impura” e da escluderla dai rapporti sociali: parliamo della lebbra. La lebbra deturpa l’aspetto esteriore, ma soprattutto causava, in passato, l’isolamento, perché essendo una malattia facilmente trasmissibile, il povero lebbroso doveva vivere fuori dal contesto sociale, non vedere più nessuno. Nella prima lettura, infatti, abbiamo ascoltato che l’autore sacro scrive: «Se qualcuno ha sulla pelle del corpo un tumore o una pustola o una macchia bianca che faccia sospettare una piaga di lebbra, quel tale … sarà impuro finché durerà in lui il male; … se ne starà solo, abiterà fuori dell’accampamento». Una speciale legislazione (cf Lv 13-14), inoltre, riservava ai sacerdoti il compito di dichiarare la persona lebbrosa, cioè impura; e ugualmente spettava al sacerdote constatarne la guarigione e riammettere il malato risanato alla vita normale. Il lebbroso che grida, dunque, è immagine dell’uomo che invoca il Salvatore, è segno del povero che chiede misericordia, che desidera ardentemente tornare in comunione con gli altri.

Ebbene, nel Vangelo abbiamo ascoltato che mentre Gesù andava predicando per i villaggi della Galilea, venne da Lui «un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: “Se vuoi, puoi purificarmi!”». Gesù non sfugge al contatto con quell’uomo, anzi, spinto da intima partecipazione alla sua condizione, «ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò» – superando il divieto legale -«e gli disse: “Lo voglio, sii purificato!”. E subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato». In quel gesto e in quelle parole di Cristo c’è tutta la storia della salvezza, c’è incarnata la volontà di Dio di guarirci, di purificarci dal male che ci sfigura e che rovina le nostre relazioni. In quel contatto tra la mano di Gesù e il lebbroso viene abbattuta ogni barriera tra Dio e l’impurità umana, tra il Sacro e il suo opposto, non certo per negare il male e la sua forza negativa, ma per dimostrare che l’amore di Dio è più forte di ogni male, anche di quello più contagioso e orribile. Gesù ha preso su di sé le nostre infermità, si è fatto “lebbroso” perché noi fossimo purificati.

Uno splendido commento esistenziale a questo Vangelo è la celebre esperienza di san Francesco d’Assisi, che egli riassume all’inizio del suo Testamento: «Il Signore dette a me, frate Francesco, d’incominciare a fare penitenza così: quando ero nei peccati, mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi; e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia. E allontanandomi da essi, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza d’animo e di corpo. E di poi, stetti un poco e uscii dal mondo» (FF, 110). In quei lebbrosi, che Francesco incontrò quando era ancora “nei peccati – come egli dice -, era presente Gesù”; e quando Francesco si avvicinò a uno di loro e, vincendo il proprio ribrezzo, lo abbracciò, Gesù lo guarì dalla sua lebbra, cioè dal suo orgoglio, e lo convertì all’amore di Dio. Ecco la vittoria di Cristo, che è la nostra guarigione profonda e la nostra risurrezione a vita nuova!

Rivolgiamoci in preghiera alla Vergine Maria, che oggi, di 166 anni fa, apparve a Lourdes a santa Bernardetta. A santa Bernardetta la Madonna consegnò un messaggio sempre attuale: l’invito alla preghiera e alla penitenza. Attraverso sua Madre è sempre Gesù che ci viene incontro, per liberarci da ogni malattia del corpo e dell’anima. Lasciamoci toccare e purificare da Lui, e usiamo misericordia verso i nostri fratelli. Amen! 

Commento al Vangelo della XXIII Domenica del Tempo Ordinario Anno B (5 settembre 2021)

Apriamo il cuore e impariamo ad ascoltare!

 Il brano evangelico odierno ci presenta l’incontro di Gesù con un malato avvenuto in terra pagana: «uscito dalla regione di Tiro, passando per Sidone, venne verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli». Qui, annota l’evangelista, «gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano». Costui è un pagano, sordo all’ascolto della rivelazione del Dio di Israele e quindi incapace di rispondergli; ma anche per lui, come per ogni essere umano, vi è una promessa di salvezza da parte di Dio: «Coraggio, non temete! … Il vostro Dio viene a salvarvi. Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi» (I Lettura). Tale promessa trova il suo pieno compimento nell’azione terapeutica di Gesù, il quale, come suo solito, opera in incognito, nel segreto, rifuggendo ogni ricerca di successo. Marco scrive che Gesù «Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua».

Dopo aver compiuto questi gesti, Gesù guarda «verso il cielo». Questo guardare verso il cielo sta a significare che il Figlio si rivolge al Padre e confessa che ogni potenza viene da lui, che senza la comunione con il Padre egli non potrebbe fare nulla (cf Gv 5,19). Di seguito Gesù emette «un sospiro». Quel «sospiro» che si lascia sfuggire al momento di toccare gli orecchi del sordo, ci dice che egli si immedesimava con le sofferenze della gente, partecipava intensamente alla loro disgrazia, se ne faceva carico. Gesù, dunque, mostra una reazione umanissima!

A questo punto ecco la parola autorevole: «Effatà, cioè: Apriti!». Perché gli evangelisti riportano la parola di Gesù nella lingua originale? Effatà è parola aramaica, la lingua parlata da Gesù, anzi quasi il suo dialetto. È una di quelle parole (insieme con AbbàAmen) che gli storici chiamano ipsissima vox, cioè la voce, il linguaggio spiccicato di Gesù.

Il motivo del rilievo dato a quella parola è che già la primitiva Chiesa aveva capito che essa non si riferiva solo alla sordità fisica, ma anche a quella spirituale. Per questo la parola entrò ben presto nel rituale del battesimo, dove è rimasta fino ai nostri giorni. Subito dopo aver ricevuto il battesimo e dopo aver consegnato la veste bianca e la candela accesa al nuovo cristiano, il sacerdote gli tocca gli orecchi e le labbra, dicendo: «Il Signore Gesù, che fece udire i sordi e parlare i muti, ti conceda di ascoltare presto la sua parola, e di professare la tua fede, a lode e gloria di Dio Padre». Questo gesto e queste parole stanno a significare che il nuovo cristiano deve aprirsi all’ascolto della parola di Dio, alla fede, alla lode, alla vita.

Però, come già avvenuto in occasione di precedenti guarigioni (cf Mc 1,43-44; 5,43), Gesù esige silenzio in proposito e intima all’uomo guarito e a quanti sono con lui di non divulgare il fatto. Ma, annota l’evangelista, «più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano e, pieni di stupore, dicevano: “Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!”». I pagani ora non sono più esclusi dalla comunione con Dio, ma possono ascoltare Dio stesso che in Gesù li ha guariti dalla sordità e possono ora narrare a tutti gli uomini le meraviglie operate dal Dio di Israele (cf Mt 15,31).

Ebbene, l’episodio evangelico è anzitutto rivolto a ciascuno di noi. Effatà. Apriti!, è un invito, dunque, a non chiudersi in se stessi, nel proprio guscio, a non essere insensibili ai bisogni altrui; ma restare disponibili e aperti nei confronti di chi ci parla e di chi ha bisogno di una nostra parola per sentirsi vivo. Effatà è anche aprirsi ad ascoltare la parola di Dio, trasmessaci dalla Chiesa e far entrare Dio nella propria vita. Un’eco forte dell’Effatà fu il grido che san Giovanni Paolo II levò nel giorno dell’inizio del suo ministero di pastore universale della Chiesa: «Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo!».

San Paolo dice che «la fede viene dall’ascolto e l’ascolto riguarda la parola di Cristo» (cf Rom 10,17). Non c’è fede possibile senza questo ascolto profondo del cuore. Ma abbiamo mai dato a Dio la possibilità di parlarci? Abbiamo mai detto, come Samuele: «Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta?» (cf 1Sam 3,10).

Apriamo il nostro cuore a Gesù e impariamo ad essere sordi non verso il prossimo ma verso coloro che parlano male di Cristo, dei nostri fratelli, con critiche e pettegolezzi. Il santo martire Ignazio d’Antiochia raccomandava ai suoi fedeli: «Siate sordi quando qualcuno parla male di Cristo». Impariamo ad essere sordi verso coloro che ci offendono o parlano male di noi, lasciando cadere le parole nel vuoto, anziché ribattere colpo su colpo. Quanti mali si eviterebbero se si lasciassero cadere nel vuoto parole dette in un momento d’ira!

Ed infine Giacomo ci ricorda, con la sua consueta schiettezza, che i cristiani devono evitare favoritismi personali.  Purtroppo quante volte noi facciamo discriminazioni! Quante volte facciamo differenze tra ricchi e poveri, tra persone potenti e importanti e persone umili e semplici.

A tal proposito concludo con un episodio che si legge nella vita di san Giuseppe Cottolengo.

Un giorno a Torino si presentò alla porta della Casa della Divina Provvidenza l’arcivescovo di Vercelli. Don Giuseppe Cottolengo, avvertito, si fece scusare con l’illustre visitatore, e gli fece dire che non poteva presentarsi a riceverlo immediatamente perché stava giocando un’importante partita alle bocce con un caro amico, ospite della sua casa: un handicappato che si sarebbe facilmente offeso se avesse interrotto il gioco. L’arcivescovo accettò quella lezione di umanità e volle avere l’onore di fare da arbitro e contare i punti nella gara di quei due accaniti giocatori di bocce.

Ebbene, la comunità cristiana deve evitare ogni favoritismo, ogni preferenza, ogni vanagloria. La dignità è uguale per tutti i figli di Dio: le distinzioni sono soltanto servizi e chiamate ad amare di più e a servire di più. 

Venerdì santo: Passione e morte di nostro Signore Gesù Cristo (2 aprile 2021)

Dalle sue piaghe siamo stati salvati

Oggi riflettiamo sulle sofferenze di Gesù. Subito dopo la cena pasquale, egli viene tradito e venduto da Giuda, abbandonato e rinnegato dagli apostoli. È flagellato, schernito e condannato a morte. Gesù è condannato dal potere politico, che capisce la trama che è stata ordita contro di lui e afferma: «Io non trovo in lui colpa alcuna». Nelle loro mani Gesù non è più un uomo ma, per come viene trattato, diventa una cosa.

Gesù ha voluto soffrire come noi e più di noi. Ha voluto andare fino in fondo nella sua missione e nel suo impegno di farsi uomo tra gli uomini. Maria, la sua santissima madre, condivide con il figlio la sofferenza: «Anche a te una spada trafiggerà l’anima» (cf Lc 2,35), le aveva detto il vecchio Simeone. Maria, madre di Gesù, ai piedi della croce diventa madre di noi tutti. Giovanni infatti scrive che presso la croce «Stavano sua madre, la sorella di sua madre, Maria madre di Clèopa e Maria di Màgdala. Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: “Donna, ecco tuo figlio”. Poi disse al discepolo: “Ecco tua madre!”».

Gesù, dunque, morendo, in Giovanni vede tutti noi e ci dà Maria perché sia nostra madre, nostra sorella nel cammino di fede, alla sequela di Gesù fino alla Pasqua definitiva.

Il Salvatore del mondo, inoltre, prima della crocifissione viene privato delle sue vesti. È umiliato e denudato, come qualunque malato di un ospedale, come qualunque condannato. Egli ha le mani e i piedi inchiodati alla croce. La crocifissione è una delle condanne più crudeli dell’antichità. Era riservata per legge agli schiavi, ai prigionieri di guerra e ai rivoltosi. L’imperatore Tito, dopo l’assedio di Gerusalemme, fece crocifiggere fuori della città gli sconfitti, 500 al giorno, fintanto che non ci fu più posto dove piantare le croci (così racconta lo storico Giuseppe Flavio). Soltanto con Costantino, nel 341, la crocifissione venne ufficialmente abolita. E Gesù ha voluto condividere questa pena. Non ci resta che adorare, di fronte a lui che soffre e perdona.

Prima di morire, Gesù ha sete: «Vi era lì un vaso pieno di aceto; posero perciò una spugna, imbevuta di aceto, in cima a una canna e gliela accostarono alla bocca. Dopo aver preso l’aceto, Gesù disse: «È compiuto!». E, chinato il capo, consegnò lo spirito». Subito dopo la morte i soldati, annota l’evangelista: «Venuti da Gesù, vedendo che era già morto, non gli spezzarono le gambe, ma uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua». Quel sangue e quell’acqua sono il simbolo del battesimo e dell’Eucaristia.

Il Redentore del mondo è morto e viene deposto in grembo a Maria, come quando era bambino. Tutto sembra finito!

Con la sepoltura, Gesù, come ogni uomo che muore, è nella pace. Ma qualcosa è già nell’aria. Le sue parole che ha detto più volte sono state chiare: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere» (cf Gv 2,19). Ben presto il cielo si riaprirà per sempre! È la gioia della Pasqua che nasce dalla sofferenza. Perché sempre la gioia nasce da una vita donata.

Camminiamo con Maria, la vergine addolorata, aiutati dal suo esempio e dalla sua preghiera, dietro al Signore Gesù, conservando gelosamente nel cuore i suoi gesti e le sue parole e aspettando il loro compimento.

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