Commento al Vangelo della X Domenica del Tempo Ordinario Anno B (9 giugno 2024)

Impariamo a fare la volontà di Dio facendoci guidare dallo Spirito Santo!

In questa X Domenica del Tempo Ordinario, il Vangelo di Marco ci presenta un episodio significativo nella vita di Gesù: è accusato dagli scribi di essere posseduto da Satana, perché scaccia i demoni: «Costui è posseduto da Beelzebùl e scaccia i demoni per mezzo del capo dei demoni». Gesù, però, coglie l’occasione per riflettere sulla natura del male e sul vero significato della sua missione e, con calma e saggezza, li sbugiarda dimostrando l’assurdità delle loro accuse. Non si lascia turbare dalle loro calunnie e li invita a riflettere sulla loro stessa logica. Se Satana è diviso contro se stesso, come può scacciare un altro Satana? In realtà, Gesù sta smascherando l’ipocrisia degli scribi, che giudicano solo dalle apparenze e non riescono a cogliere la vera natura della sua opera.

L’evangelista Marco scrive che Gesù «li chiamò e con parabole diceva loro: “Come può Satana scacciare Satana? Se un regno è diviso in se stesso, quel regno non potrà restare in piedi; se una casa è divisa in se stessa, quella casa non potrà restare in piedi. Anche Satana, se si ribella contro se stesso ed è diviso, non può restare in piedi, ma è finito”».  Gesù, dunque, non «è posseduto da uno spirito impuro», come dicevano. Anzi, Egli è colui che ha il potere di scacciarlo ed è venuto nel mondo per liberare l’umanità dal male e per rivelare l’amore di Dio Padre. La sua opera di liberazione dai demoni non deriva da una forza malvagia, ma dall’azione dello Spirito Santo. L’autore sacro annota che chiunque bestemmia contro lo Spirito Santo, dice Gesù, commette un peccato imperdonabile: «tutto sarà perdonato ai figli degli uomini, i peccati e anche tutte le bestemmie che diranno; ma chi avrà bestemmiato contro lo Spirito Santo non sarà perdonato in eterno: è reo di colpa eterna». Ciò significa che il peccato contro lo Spirito Santo è il rifiuto ostinato della salvezza offerta da Dio.

Gesù, quando fa queste affermazioni, si trova in una casa circondato da una folla numerosa «tanto che non potevano neppure mangiare». I suoi familiari, preoccupati per la sua incolumità e per le voci che circolano su di lui, cercano di riportarlo a casa. San Marco, infatti, scrive che «giunsero sua madre e i suoi fratelli e, stando fuori, mandarono a chiamarlo […] e gli dissero: “Ecco, tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle stanno fuori e ti cercano”. Ma egli rispose loro: “Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?”. Girando lo sguardo su quelli che erano seduti attorno a lui, disse: “Ecco mia madre e miei fratelli! Perché chi fa la volontà di Dio, costui per me è fratello, sorella e madre».

Con questa affermazione, Gesù ridefinisce il concetto di famiglia, allargandolo a tutti coloro che si impegnano a seguire il suo insegnamento. La vera famiglia per Gesù, dunque, non si basa sui legami di sangue, ma è composta da tutti coloro che si impegnano a seguire e a fare la volontà del Padre.  E la volontà di Dio non è un insieme di regole da seguire, ma un invito ad amare e a donare la nostra vita per gli altri.

Questa pericope evangelica vuol farci comprendere che Gesù non nega l’esistenza del male, anzi, lo chiama “Beelzebùl”, il capo dei demoni. Ma il male non ha potere su di lui, perché Gesù è Figlio di Dio e possiede lo Spirito Santo. La sua missione è quella di liberare l’umanità dal male e dal peccato, e lo fa con la parola, con i miracoli e con il sacrificio della sua vita.

Ebbene, lo scontro che Gesù è deciso a sostenere non è contro uomini o poteri umani, ma contro il nemico di Dio e dell’uomo, Satana. Chi vuole resistere a questo nemico rimanendo fedele a Dio e al bene deve necessariamente affrontare incomprensioni e qualche volta vere e proprie persecuzioni. Perciò, quanti intendono seguire Gesù e impegnarsi senza compromessi per la verità devono sapere che incontreranno opposizioni e diventeranno, loro malgrado, segno di divisione tra le persone, addirittura all’interno delle loro stesse famiglie. L’amore per i genitori infatti è un comandamento sacro, ma per essere vissuto in modo autentico non può mai essere anteposto all’amore di Dio e di Cristo. In tal modo, sulle orme del Signore Gesù, i cristiani diventano “strumenti della sua pace”, secondo la celebre espressione di san Francesco d’Assisi. Non di una pace inconsistente e apparente, ma reale, perseguita con coraggio e tenacia nel quotidiano impegno di vincere il male con il bene (cfr Rm 12,21) e pagando di persona il prezzo che questo comporta.

La Vergine Maria, Regina della Pace, ha condiviso fino al martirio dell’anima la lotta del suo Figlio Gesù contro il Maligno, e continua a condividerla sino alla fine dei tempi. Invochiamo la sua materna intercessione, perché ci aiuti ad essere sempre testimoni della pace di Cristo, mai scendendo a compromessi con il male, ci doni la grazia di ascoltare e di mettere in pratica la Parola di Cristo Gesù, che è venuto nel mondo per liberarci dal male e dal peccato, e ci aiuti a custodire sempre lo Spirito Santo nei nostri cuori. Amen!

La coperta di Gesù!

Si raccontava una volta che una donna aveva un figlio malato e non aveva i soldi per curarlo. A quell’epoca non esistevano le mutue e neppure il Servizio Sanitario Nazionale. La povera donna pregava incessantemente il santo Rosario (la preghiera dei poveri che venina recitata anche durante la Santa Messa quando si celebrava in latino). Il figlio peggiorava e la febbre era alta e lei non sapeva come fare. Mancava anche una coperta di lana per coprirlo. La poverina usava i sacchi di iuta che conservava gelosamente e che utilizzava quando andava a lavorare per raccogliere le olive. Era talmente povera che non poteva neppure mettere della legna nel camino. Si rivolgeva alla santa Vergine e con fede la supplicava dicendo: “Madre del Verbo incarnato aiutatemi, prendetevi compassione di me e della mia indigenza. Ho questo figlio malato che non riesco a curarlo”. La Santa Vergine ebbe compassione e decise di aiutarla. Una signora bussò alla porta e quale fu la sorpresa della poveretta quando si sentì dire: “Vi ho portata una coperta per coprire vostro figlio, tornerò a riprenderla”. La donna era tutta emozionata e la portò subito sul letto del figlio, ma non si accorse che la signora era già andata via. Il giorno seguente, finalmente, la febbre era sparita, dopo tanti giorni. La donna ripensò subito alla signora che era stata gentile. Il figlio, che era ormai guarito, ricominciò a dare aiuto alla mamma lavorando nell’orto che era l’unica risorsa. Passarono dei giorni e una notte apparve in sogno la santa Vergine, si accostò sulla panca vicino a letto dove era deposta la coperta e disse alla donna: “sono venuta a riprendere la coperta di mio figlio”. La donna chiese: “Voi siete la santa Vergine Maria?” La Madonna rispose con un cenno di capo di sì. Allora, la donna tutta emozionata disse: “Questa è la coperta di vostro figlio Gesù, lascatemi che io la baci per l’ultima volta”. La santa Vergine svelò alla donna che quella coperta l’aveva tessuta di sua mano quando stava in Egitto e aveva coperto Gesù quando si era ammalato. Poi, soggiunse: “Verrò un’altra volta a portarla sempre per vostro figlio”. Quando la donna si svegliò si accorse che la coperta non era più sulla panca. Passarono gli anni e intanto il figlio aveva espresso il desiderio di farsi prete. Arrivò finalmente la vigilia della consacrazione al sacerdozio e quale fu la sorpresa della donna quando trovò la mattina sulla panca la coperta così come l’aveva deposta tanti anni fa! Meravigliata si domandava il significato di quel ritrovamento e in cuor suo continuava a pregare la santa Vergine chiedendole di capire questo singolare gesto. Finalmente venne il giorno della consacrazione e la sera, stanca e felice, la donna andò a riposare. La notte le apparve in sogno la Vergine Maria vestita di luce e sorridente. “Vuoi sapere il significato della coperta?” chiese la Madre di Dio. La poveretta confusa fece cenno di sì e la Madonna disse: “ogni sacerdote è mio figlio prediletto e io mi prendo cura di lui personalmente, sono venuto a portarti la coperta perché ogni volta che mio figlio ne ha bisogno tu possa coprirlo con la coperta di Gesù”.

Morale: Molti non si rendono conto del dono che hanno ricevuto con la vocazione sacerdotale. Ogni sacerdote è un “altro Cristo”. Oggi è la festa della mamma e ogni consacrato ha le attenzioni della Madonna in modo speciale. E proprio vero che il sacerdote è stato partorito due volte: dalle preghiere della mamma terrena e dalle attenzioni della Mamma del cielo. Ognuno di noi ne sia degno di questo dono che la comunità parrocchiale ha ricevuto e sostenga i sacerdoti con la dedizione e l’affetto che si deve ad un figlio prediletto della santa Vergine.

(Pensieri di padre Pio)

Commento al Vangelo della solennità dell’Ascensione di Nostro Signore Gesù Cristo Anno B (12 maggio 2024)

Ascensione? Festa dell’annuncio e della credibilità!

Quaranta giorni dopo la Risurrezione – secondo il Libro degli Atti degli Apostoli – «Gesù è stato assunto in cielo», cioè è ritornato al Padre, dal quale era stato mandato nel mondo. L’Ascensione del Signore segna il compiersi della salvezza iniziata con l’Incarnazione. Dopo avere istruito per l’ultima volta i suoi discepoli, «Gesù fu elevato in cielo». Cristo Signore, si legge nel Prefazio, «ci ha preceduti nella dimora eterna non per separarsi dalla nostra condizione umana, ma per darci la serena fiducia che dove è lui, capo e primogenito, saremo anche noi, sue membra, uniti nella preghiera». Come per noi, il Signore Gesù, è disceso dal Cielo, e per noi ha patito ed è morto sulla croce, così per noi è risorto ed è risalito a Dio, che perciò non è più lontano. San Leone Magno spiega che con questo mistero «viene proclamata non solo l’immortalità dell’anima, ma anche quella della carne. Oggi, infatti, non solo siamo confermati possessori del paradiso, ma siamo anche penetrati in Cristo nelle altezze del cielo» (De Ascensione Domini, Tractatus 73, 2.4: CCL 138 A, 451.453). Per questo i discepoli, quando videro il Maestro sollevarsi da terra e innalzarsi verso l’alto, non furono presi dallo sconforto, come si potrebbe pensare anzi, provarono una grande gioia e si sentirono spinti a proclamare la vittoria di Cristo sulla morte. E il Signore risorto, scrive l’evangelista Marco, «agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano», distribuendo a ciascuno un carisma proprio. Lo scrive ancora san Paolo: «Ha distribuito doni agli uomini … ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri … allo scopo di edificare il corpo di Cristo … fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo» (cf Ef 4,8.11-13).

Questa festa dell’Ascensione del Signore racchiude due elementi. Da una parte, orienta il nostro sguardo al cielo, dove Gesù glorificato siede alla destra di Dio. Dall’altra parte, ci ricorda l’inizio della missione della Chiesa: perché? Perché Gesù risorto e asceso al cielo manda i suoi discepoli a diffondere il Vangelo in tutto il mondo. Pertanto, l’Ascensione ci esorta ad alzare lo sguardo al cielo, per poi rivolgerlo subito alla terra, attuando i compiti che il Signore risorto ci affida.

Gesù affida ai suoi discepoli una missione. Si tratta di una missione sconfinata – cioè letteralmente senza confini – che supera le forze umane. Cristo Signore infatti dice: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo ad ogni creatura». Sembra davvero troppo audace l’incarico che Gesù affida a un piccolo gruppo di uomini semplici e senza grandi capacità intellettuali! Eppure questa sparuta compagnia, irrilevante di fronte alle grandi potenze del mondo, è inviata a portare il messaggio d’amore e di misericordia di Gesù in ogni angolo della terra.

Ma questo progetto di Dio può essere realizzato solo con la forza che Dio stesso concede agli Apostoli. In tal senso, Gesù li assicura che la loro missione sarà sostenuta dallo Spirito Santo. Nella prima lettura abbiamo ascoltato che Gesù dice: «Riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra». Così questa missione ha potuto realizzarsi, e gli Apostoli hanno dato inizio a quest’opera, che poi è stata portata avanti dai loro successori. La missione affidata da Gesù agli Apostoli è proseguita attraverso i secoli, e prosegue ancora oggi: essa richiede la collaborazione di tutti noi. Ciascuno, infatti, in forza del Battesimo che ha ricevuto, è abilitato per parte sua ad annunciare il Vangelo.

L’Ascensione del Signore al cielo, mentre inaugura una nuova forma di presenza di Gesù in mezzo a noi, ci chiede di avere occhi e cuore per incontrarlo, per servirlo e per testimoniarlo agli altri. Si tratta di essere uomini e donne dell’Ascensione, cioè cercatori di Cristo lungo i sentieri del nostro tempo, portando la sua parola di salvezza sino ai confini della terra. In questo itinerario noi incontriamo Cristo stesso nei fratelli, soprattutto nei più poveri, in quelli che soffrono nella propria carne la dura e mortificante esperienza di vecchie e nuove povertà. Come all’inizio Cristo Risorto inviò i suoi apostoli con la forza dello Spirito Santo, così oggi Egli invia tutti noi, con la stessa forza, per porre segni concreti e visibili di speranza.

Questa festa, inoltre, ci dice che in Cristo la nostra umanità è portata alla altezza di Dio; così, ogni volta che preghiamo, la terra si congiunge al Cielo. E come l’incenso, bruciando, fa salire in alto il suo fumo, così, quando innalziamo al Signore la nostra fiduciosa preghiera in Cristo, essa attraversa i cieli e raggiunge Dio stesso e viene da Lui ascoltata ed esaudita. Nella celebre opera di san Giovanni della Croce, Salita al Monte Carmelo, leggiamo che «per vedere realizzati i desideri del nostro cuore, non v’è modo migliore che porre la forza della nostra preghiera in ciò che più piace a Dio. Allora, Egli non ci darà soltanto quanto gli chiediamo, cioè la salvezza, ma anche quanto Egli vede sia conveniente e buono per noi, anche se non glielo chiediamo» (Libro III, cap. 44, 2, Roma 1991, 335).

Supplichiamo la Vergine Maria, Madre del Signore morto e risorto, affinché ci aiuti a tenere «in alto i nostri cuori» per contemplare i beni celesti, che il Signore ci promette, e a diventare testimoni sempre più credibili della sua Risurrezione e Ascensione al cielo. Amen!

Commento al Vangelo della V Domenica di Pasqua Anno B (28 aprile 2024)

La forza del cristiano? Rimanere in Cristo!

Domenica scorsa il Vangelo ha messo in risalto il rapporto tra il credente e Gesù Buon Pastore. Oggi, invece, il Vangelo si apre con l’immagine della vigna. «Gesù disse ai suoi discepoli: “Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore”». La vite è una pianta che forma un tutt’uno con i tralci; e i tralci sono fecondi unicamente in quanto uniti alla vite. Questa relazione è il segreto della vita cristiana e l’evangelista Giovanni la esprime col verbo “rimanere”, che nel brano odierno è ripetuto sette volte.

Spesso, nella Bibbia, Israele viene paragonato alla vigna feconda quando è fedele a Dio; ma, se si allontana da Lui, diventa sterile, incapace di produrre quel «vino che allieta il cuore dell’uomo», come recita il Salmo 104 (v. 15). La vera vigna di Dio, la vite vera, è Gesù, che con il suo sacrificio d’amore ci dona la salvezza, ci apre il cammino per essere parte di questa vigna. E come Cristo rimane nell’amore di Dio Padre, così i discepoli, sapientemente potati dalla parola del Maestro, se sono uniti in modo profondo a Lui, diventano tralci fecondi, che producono abbondante raccolto. Gesù, infatti, annota l’evangelista Giovanni, dice: «Ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto … Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me». Scrive san Francesco di Sales: «Il ramo unito e congiunto al tronco porta frutto non per propria virtù, ma per virtù del ceppo: ora, noi siamo stati uniti dalla carità al nostro Redentore, come le membra al capo; ecco perché … le buone opere, traendo il loro valore da Lui, meritano la vita eterna» (Trattato dell’amore di Dio, XI, 6, Roma 2011, 601).

Nel giorno del nostro Battesimo la Chiesa ci innesta come tralci nel Mistero Pasquale di Gesù, nella sua Persona stessa. Da questa radice riceviamo la preziosa linfa per partecipare alla vita divina. Come discepoli, anche noi, con l’aiuto dei Pastori della Chiesa, cresciamo nella vigna del Signore vincolati dal suo amore. «Se il frutto che dobbiamo portare è l’amore, il suo presupposto è proprio questo “rimanere” che profondamente ha a che fare con quella fede che non lascia il Signore» (Gesù di Nazaret, Milano 2007, 305). È indispensabile rimanere sempre uniti a Gesù, dipendere da Lui, perché senza di Lui non possiamo far nulla: «Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla». «Rimanere» in Cristo, dunque, garantisce l’efficacia della preghiera, come dice il beato cistercense Guerrico d’Igny: «O Signore Gesù … senza di te non possiamo fare nulla. Tu, infatti, sei il vero giardiniere, creatore, coltivatore e custode del tuo giardino, che pianti con la tua parola, irrighi con il tuo spirito, fai crescere con la tua potenza» (Sermo ad excitandam devotionem in psalmodiaSC 202, 1973, 522).

Ebbene, quando si è intimi con il Signore, come sono intimi e uniti tra loro la vite e i tralci, si è capaci di portare frutti di vita nuova, di misericordia, di giustizia e di pace, derivanti dalla Risurrezione del Signore. È quanto hanno fatto i Santi, coloro che hanno vissuto in pienezza la vita cristiana e la testimonianza della carità, perché sono stati veri tralci della vite del Signore. Ma per essere santi «non è necessario essere vescovi, sacerdoti o religiosi. […] Tutti noi, tutti, siamo chiamati ad essere santi vivendo con amore e offrendo ciascuno la propria testimonianza nelle occupazioni di ogni giorno, lì dove si trova» (Esort. ap.  Gaudete et exsultate, 14). Tutti noi siamo chiamati ad essere santi; dobbiamo essere santi con questa ricchezza che noi riceviamo dal Signore risorto. Ogni attività, sia piccola sia grande, se vissuta in unione con Gesù e con atteggiamento di amore e di servizio, è occasione per vivere in pienezza il Battesimo e la santità evangelica.

Ognuno di noi è come un tralcio, che vive solo se fa crescere ogni giorno nella preghiera, nella partecipazione ai Sacramenti, nella carità, la sua unione con il Signore. E chi ama Gesù, vera vite, produce frutti di fede per un abbondante raccolto spirituale.

Ci sia di aiuto Maria, Madre di Dio, Regina dei Santi e modello di perfetta comunione con il suo Figlio divino. Ci insegni Lei a rimanere saldamente innestati in Gesù, come tralci alla vite, e a non separarci mai dal suo amore. Ogni nostra azione abbia in Lui il suo inizio e in Lui il suo compimento. Nulla, infatti, possiamo senza di Lui, perché la nostra vita è Cristo vivo, presente nella Chiesa e nel mondo. Amen! 

Commento al Vangelo della II Domenica di Pasqua Anno B (7 aprile 2024)

Mio Signore e mio Dio!

Nel Vangelo della veglia pasquale abbiamo ascoltato l’evangelista Marco, il quale scrive che «passato il sabato, Maria di Magdala, Maria madre di Giacomo e Salome compararono oli aromatici per andarlo a ungerlo. Di buon mattino, il primo giorno della settimana, vennero al sepolcro al levare del sole». Giunte al sepolcro, annota Marco, «osservarono che la pietra era stata fatta rotolare. Entrate nel sepolcro, videro un giovane, seduto sulla destra, vestito d’una veste bianca, ed ebbero paura. Ma egli disse loro: “Non abbiate paura! Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso. È risorto, non è qui”» (cf Mc 16,1-2.4-6).

Non è difficile immaginare quali fossero, in quel momento, i sentimenti di queste donne: sentimenti di tristezza e sgomento per la morte del loro Signore, sentimenti di incredulità e stupore per un fatto troppo sorprendente per essere vero. La tomba però era aperta e vuota: il corpo non c’era più. Pietro e Giovanni, avvertiti dalle donne, corsero al sepolcro e verificarono che esse avevano ragione. La fede degli Apostoli in Gesù, l’atteso Messia, era stata messa a durissima prova dallo scandalo della croce. Durante il suo arresto, la sua condanna e la sua morte si erano dispersi, ed ora si ritrovavano insieme, perplessi e disorientati. Ma il Risorto stesso venne incontro alla loro incredula sete di certezze. Non fu sogno, né illusione o immaginazione soggettiva quell’incontro; fu un’esperienza vera, anche se inattesa e proprio per questo particolarmente toccante. L’evangelista Giovanni, infatti, scrive che «la sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: “Pace a voi!”».

A quelle parole, la fede quasi spenta nei loro animi si riaccese. Gli Apostoli riferirono a Tommaso, assente in quel primo incontro straordinario: «Abbiamo visto il Signore!». Tommaso però rimase dubbioso e perplesso tanto da rispondere ai suoi compagni: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo». Quando Gesù venne una seconda volta, otto giorni dopo nel Cenacolo, gli disse: «Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». La risposta dell’Apostolo è una commovente professione di fede: «Mio Signore e mio Dio!». E Gesù, annota l’evangelista, gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!».

Rinnoviamo anche noi la professione di fede di Tommaso. L’odierna umanità attende dai cristiani una rinnovata testimonianza della risurrezione di Cristo; ha bisogno di incontrarlo e di poterlo conoscere come vero Dio e vero Uomo. Se in questo Apostolo possiamo riscontrare i dubbi e le incertezze di tanti cristiani di oggi, le paure e le delusioni di innumerevoli nostri contemporanei, con lui possiamo anche riscoprire con convinzione rinnovata la fede in Cristo morto e risorto per noi. Questa fede, tramandata nel corso dei secoli dai successori degli Apostoli, continua, perché il Signore risorto non muore più. Egli vive nella Chiesa e la guida saldamente verso il compimento del suo eterno disegno di salvezza.

Ciascuno di noi può essere tentato dall’incredulità di Tommaso. Il dolore, il male, le ingiustizie, la morte, specialmente quando colpiscono gli innocenti – ad esempio, i bambini vittime della guerra e del terrorismo, delle malattie e della fame – non mettono forse a dura prova la nostra fede? Eppure, paradossalmente, proprio in questi casi, l’incredulità di Tommaso ci è utile e preziosa, perché ci aiuta a purificare ogni falsa concezione di Dio e ci conduce a scoprirne il volto autentico: il volto di un Dio che, in Cristo, si è caricato delle piaghe dell’umanità ferita. Tommaso ha ricevuto dal Signore e, a sua volta, ha trasmesso alla Chiesa il dono di una fede provata dalla passione e morte di Gesù e confermata dall’incontro con Lui risorto. Una fede che era quasi morta ed è rinata grazie al contatto con le piaghe di Cristo, con le ferite che il Risorto non ha nascosto, ma ha mostrato e continua a indicarci nelle pene e nelle sofferenze di ogni essere umano.

«Dalle sue piaghe siete stati guariti» (cf 1Pt 2,24), è questo l’annuncio che Pietro rivolgeva ai primi convertiti. Quelle piaghe, che per Tommaso erano dapprima un ostacolo alla fede, perché segni dell’apparente fallimento di Gesù; quelle stesse piaghe sono diventate, nell’incontro con il Risorto, prove di un amore vittorioso. Queste piaghe che Cristo ha contratto per amore nostro ci aiutano a capire chi è Dio e a ripetere anche noi: “Mio Signore e mio Dio”. Solo un Dio che ci ama fino a prendere su di sé le nostre ferite e il nostro dolore, soprattutto quello innocente, è degno di fede. 

Quante ferite, quanto dolore nel mondo! Non mancano calamità naturali e tragedie umane che provocano innumerevoli vittime e ingenti danni materiali. Pensiamo ai terremoti, al flagello della fame, alle malattie incurabili, al terrorismo e ai sequestri di persona, ai mille volti della violenza – talora giustificata in nome della religione – al disprezzo della vita e alla violazione dei diritti umani, allo sfruttamento della persona. Pensiamo anche alla guerra. Quanta sofferenza e quante persone soffrono e muoiono innocentemente. Davvero, come spesso ha detto papa Francesco, stiamo vivendo una terza guerra mondiale a pezzi. Il mondo ha bisogno di riconciliazione e di pace!

Attraverso le piaghe di Cristo risorto possiamo vedere questi mali che affliggono l’umanità con occhi di speranza. Risorgendo, infatti, il Signore non ha tolto la sofferenza e il male dal mondo, ma li ha vinti alla radice con la sovrabbondanza della sua Grazia. Alla prepotenza del Male ha opposto l’onnipotenza del suo Amore. Ci ha lasciato come via alla pace e alla gioia l’Amore che non teme la morte. «Come io ho amato voi – ha detto agli Apostoli prima di morire -, così amatevi anche voi gli uni gli altri» (cf Gv 13,34).

Cristo risorto è vivo tra noi, è Lui la speranza di un futuro migliore. Mentre con Tommaso diciamo: «Mio Signore e mio Dio!», risuoni nel nostro cuore la parola dolce ma impegnativa del Signore: «Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà» (cf Gv 12,26). Ed anche noi, uniti a Lui, disposti a spendere la vita per i nostri fratelli (cf 1Gv 3,16), diventiamo apostoli di pace, messaggeri di una gioia che non teme il dolore, la gioia della Risurrezione. Ci ottenga questo dono pasquale Maria, Madre di Cristo risorto. Amen!

 

Presentazione di Gesù al Tempio Anno B (2 febbraio 2024)

Cristo, luce delle genti, ci aiuti ad essere luce per gli altri!

Nel suo racconto dell’infanzia di Gesù, san Luca sottolinea come Maria e Giuseppe fossero fedeli alla Legge del Signore. Con profonda devozione compiono tutto ciò che è prescritto dopo il parto di un primogenito maschio. Si tratta di due prescrizioni molto antiche: una riguarda la madre e l’altra il bambino neonato. Per la donna è prescritto che si astenga per quaranta giorni dalle pratiche rituali, dopo di che offra un duplice sacrificio: un agnello in olocausto e una tortora o un colombo per il peccato; ma se la donna è povera, può offrire due tortore o due colombi (cf Lv 12,1-8). San Luca precisa che Maria e Giuseppe offrirono il sacrificio dei poveri – «una coppia di tortore o due giovani colombi» -, per evidenziare che Gesù è nato in una famiglia di gente semplice, umile ma molto credente: una famiglia appartenente a quei poveri di Israele che formano il vero popolo di Dio. Per il primogenito maschio, che secondo la Legge di Mosè è proprietà di Dio, era invece prescritto il riscatto, stabilito nell’offerta di cinque sicli, da pagare ad un sacerdote in qualunque luogo. Ciò a perenne memoria del fatto che, al tempo dell’Esodo, Dio risparmiò i primogeniti degli ebrei (cf Es 13,11-16).

È importante osservare che per questi due atti – la purificazione della madre e il riscatto del figlio – non era necessario andare al Tempio. Invece Maria e Giuseppe vogliono compiere tutto a Gerusalemme, e san Luca fa vedere come l’intera scena converga verso il Tempio, e quindi si focalizzi su Gesù che vi entra. Ed ecco che, proprio attraverso le prescrizioni della Legge, l’avvenimento principale diventa un altro, cioè la “presentazione” di Gesù al Tempio di Dio, che significa l’atto di offrire il Figlio dell’Altissimo al Padre che lo ha mandato (cf Lc 1,32.35).

Questa narrazione dell’Evangelista trova riscontro nella parola del profeta Malachia che abbiamo ascoltato all’inizio della prima Lettura: «Così dice il Signore Dio: “Ecco, io manderò un mio messaggero a preparare la via davanti a me e subito entrerà nel suo tempio il Signore che voi cercate; e l’angelo dell’alleanza, che voi sospirate, eccolo venire … Egli purificherà i figli di Levi … perché possano offrire al Signore un’offerta secondo giustizia». Chiaramente qui non si parla di un bambino, e tuttavia questa parola trova compimento in Gesù, perché «subito», grazie alla fede dei suoi genitori, Egli è stato portato al Tempio; e nell’atto della sua «presentazione», o della sua «offerta» personale a Dio Padre, traspare chiaramente il tema del sacrifico e del sacerdozio, come nel passo del profeta. Il bambino Gesù, che viene subito presentato al Tempio, è quello stesso che, una volta adulto, purificherà il Tempio (cf Gv 2,13-22; Mc 11,15,19 e par.) e soprattutto farà di se stesso il sacrificio e il sommo sacerdote della nuova Alleanza.

Questa è anche la prospettiva della Lettera agli Ebrei, così che il tema del nuovo sacerdozio viene rafforzato: un sacerdozio – quello inaugurato da Gesù – che è esistenziale: «Proprio per essere stato messo alla prova e aver sofferto personalmente, egli è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova» (cf Eb 2,18). E così troviamo anche il tema della sofferenza, molto marcato nel brano evangelico, là dove Simeone pronuncia la sua profezia sul Bambino e sulla Madre: «Egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione – e anche a te [Maria] una spada trafiggerà l’anima». La «salvezza» che Gesù porta al suo popolo, e che incarna in se stesso, passa attraverso la croce, attraverso la morte violenta che Egli vincerà e trasformerà con l’oblazione della vita per amore. Questa oblazione è già tutta preannunciata nel gesto della presentazione al Tempio, un gesto certamente mosso dalle tradizioni dell’antica Alleanza, ma intimamente animato dalla pienezza della fede e dell’amore che corrisponde alla pienezza dei tempi, alla presenza di Dio e del suo Santo Spirito in Gesù. Lo Spirito, in effetti, aleggia su tutta la scena della presentazione di Gesù al Tempio, in particolare sulla figura di Simeone, ma anche di Anna. È lo Spirito «Paraclito», che porta la «consolazione» di Israele e muove i passi e il cuore di coloro che la attendono. È lo Spirito che suggerisce le parole profetiche di Simeone e Anna, parole di benedizione, di lode a Dio, di fede nel suo Consacrato, di ringraziamento perché finalmente i nostri occhi possono vedere e le nostre braccia stringere «la sua salvezza».

«Luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele»: così Simeone definisce il Messia del Signore, al termine del suo canto di benedizione. Il tema della luce, che riecheggia il primo e il secondo carme del Servo del Signore, nel Deutero-Isaia (cf Is 42,6; 49,6), è fortemente presente in questa liturgia. Essa, infatti, è stata aperta da una suggestiva processione. Processione dove abbiamo portato i ceri accesi. Questo segno, specifico della tradizione liturgica di questa Festa, è molto espressivo. Manifesta la bellezza e il valore della vita consacrata come riflesso della luce di Cristo; un segno che richiama l’ingresso di Maria nel Tempio: la Vergine Maria, la Consacrata per eccellenza, portava in braccio la Luce stessa, il Verbo incarnato, venuto a scacciare le tenebre dal mondo con l’amore di Dio.

Oggi è anche la festa dei religiosi, la giornata della vita consacrata. Ebbene, come comportarsi quando un figlio, o una figlia, dovesse manifestare il proposito di consacrarsi totalmente al Signore, abbracciando la vita religiosa o sacerdotale? Ci sono famiglie, che pure si professano cristiane, dove la notizia di una vocazione viene accolta con tristezza, come fosse una disgrazia. Quante volte i genitori cercano di dissuadere i figli dal seguire la loro strada! Dovrebbe essere piuttosto un onore e una gioia per dei genitori cristiani, quando un figlio decide di dedicarsi e donarsi al Signore. I genitori, dunque, non devono ostacolare i loro figli in questa non facile scelta, ma accompagnarli, come accompagnano gli altri figli all’altare, nel giorno del loro matrimonio. Molti genitori, col passare degli anni, hanno sentito il bisogno di chiedere scusa al figlio sacerdote o alla figlia suora, per non averli capiti in tempo.

Alla luce di questa scena evangelica guardiamo alla vita consacrata come ad un incontro con Cristo: è Lui che viene a noi, portato da Maria e Giuseppe, e siamo noi che andiamo verso di Lui, guidati dallo Spirito Santo. Ma al centro c’è Lui. Lui muove tutto, Lui ci attira al Tempio, alla Chiesa, dove possiamo incontrarlo, riconoscerlo, accoglierlo, abbracciarlo.

La gioia della vita consacrata passa necessariamente attraverso la partecipazione alla Croce di Cristo. Così è stato per Maria Santissima. La sua è la sofferenza del cuore che forma un tutt’uno col Cuore del Figlio di Dio, trafitto per amore. Da quella ferita sgorga la luce di Dio, e anche dalle sofferenze, dai sacrifici, dal dono di se stessi che i consacrati vivono per amore di Dio e degli altri si irradia la stessa luce, che evangelizza le genti.

Nella festa della Presentazione, in ricordo di Gesù che fu proclamato da Simeone «luce delle genti», vengono benedette delle piccole candele che ognuno poi, se vuole, può portare a casa. Per questo la festa veniva chiamata popolarmente la festa della «Candelora», ossia la festa delle «luci». Ringraziamo Cristo per il dono della fede e preghiamolo affinché, per intercessione della Vergine Maria, ci aiuti ad essere luce per gli altri e vivere appieno la nostra vocazione per la salvezza del mondo. Amen!

 

Commento al Vangelo della III Domenica del Tempo Ordinario Anno B (21 gennaio 2024)

Convertiamoci e crediamo sempre a Cristo, nostra unica salvezza!

Con la Lettera apostolica in forma di Motu proprio “Aperuit illis”, Papa Francesco ha stabilito che la III Domenica del Tempo ordinario sia dedicata alla celebrazione, riflessione e divulgazione della Parola di Dio.

Nella prima lettura, infatti, abbiamo ascoltato il racconto di Giona che viene inviato da Dio a Ninive e, agli abitanti di questa città, egli contesta la loro corruzione. Avere il coraggio di dire la verità è scomodo. Quanti nemici si fanno quando diciamo la verità! Oggi le persone vogliono sentire ciò che a loro fa piacere! Però, dire la verità, è un gesto di carità. Voler bene significa anche rimproverare; voler bene significa dire la verità; voler bene significa anche contestare un comportamento. Noi, spesso, accondiscendiamo a quello che dicono gli altri per quieto vivere. Ma, comportandoci in questo modo, noi non amiamo; perché amare, voler bene, significa anche saper dire di no!

I cittadini di Ninive, scrive l’autore sacro, «credettero a Dio e bandirono un digiuno, vestirono il sacco, grandi e piccoli. Dio vide le loro opere, che cioè si erano convertiti dalla loro condotta malvagia e Dio si ravvide riguardo al male che aveva minacciato di fare loro e non lo fece». Di fronte a questa infinita misericordia di Dio, non dobbiamo restare sconcertati, perché Dio è Amore. E poiché Dio è Amore, ogni credente, ogni cristiano, deve vivere la misericordia di Dio. Chissà quanta gente avvicinandosi a noi, ha cercato un’eco della bontà di Dio… e non l’ha trovato perché il nostro cuore era pieno di rancore e vendetta!

Nella seconda lettura, invece, abbiamo ascoltato che Paolo ricorda ai cristiani di Corinto che «il tempo si è fatto breve». Anche nel vangelo abbiamo ascoltato che Gesù dice: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo». Ma che cosa significano queste affermazioni di Gesù e di Paolo? Significa che dobbiamo credere in Gesù, confidare in lui e non sulle nostre opere, credere nella sua parola, parola capace di scuotere oggi come allora i cuori addormentati.

Ebbene, l’appello alla conversione mette a nudo e denuncia la facile superficialità che caratterizza molto spesso il nostro vivere. Convertirsi, dunque, significa cambiare direzione nel cammino della vita: non, però, con un piccolo aggiustamento, ma con una vera e propria inversione di marcia. Conversione è andare controcorrente, dove la “corrente” è lo stile di vita superficiale, incoerente ed illusorio, che spesso ci trascina, ci domina e ci rende schiavi del male o comunque prigionieri della mediocrità morale. Con la conversione, invece, si punta alla misura alta della vita cristiana, ci si affida al vangelo vivente e personale, che è Cristo Gesù. È la sua persona la meta finale e il senso profondo della conversione, è lui la via sulla quale tutti sono chiamati a camminare nella vita, lasciandosi illuminare dalla sua luce e sostenere dalla sua forza che muove i nostri passi. In tal modo la conversione manifesta il suo volto più splendido e affascinante: non è una semplice decisione morale, che rettifica la nostra condotta di vita, ma è una scelta di fede, che ci coinvolge interamente nella comunione intima con la persona viva e concreta di Gesù. Convertirsi e credere al vangelo non sono due cose diverse o in qualche modo soltanto accostate tra loro, ma esprimono la medesima realtà. La conversione è il “” totale di chi consegna la propria esistenza al vangelo, rispondendo liberamente a Cristo che per primo si offre all’uomo come via, verità e vita, come colui che solo lo libera e lo salva.

Il «convertitevi e credete nel Vangelo» non sta solo all’inizio della vita cristiana, ma ne accompagna tutti i passi, permane rinnovandosi e si diffonde ramificandosi in tutte le sue espressioni. Ogni giorno è momento favorevole e di grazia, perché ogni giorno ci sollecita a consegnarci a Gesù, ad avere fiducia in Lui, a rimanere in Lui, a condividerne lo stile di vita, a imparare da Lui l’amore vero, a seguirlo nel compimento quotidiano della volontà del Padre, l’unica grande legge di vita. Ogni giorno, anche quando non mancano le difficoltà e le fatiche, le stanchezze e le cadute, anche quando siamo tentati di abbandonare la strada della sequela di Cristo e di chiuderci in noi stessi, nel nostro egoismo, senza renderci conto della necessità che abbiamo di aprirci all’amore di Dio in Cristo, per vivere la stessa logica di giustizia e di amore.

Purtroppo per tanti cristiani il vangelo non è più un lieto annuncio che desta stupore e ammirazione. L’abbiamo ridotto a un elenco di formule e di norme morali da mettere in pratica. Per questo siamo sempre in cerca di segni sempre nuovi. Gli abitanti di Ninive accolsero la parola di Giona con prontezza, non chiesero prove o prodigi particolari e a quella parola si convertirono. Così come Simone, Andrea, Giacomo e Giovanni i quali hanno accolto la chiamata di Gesù, Verbo di Dio, «Venite dietro a me», e subito lo hanno seguito lasciando tutto: reti, padre, barca. È una lezione da tener presente!

Ebbene, accogliamo anche noi la chiamata del Signore, seguiamolo e diventiamo «pescatori di uomini». Diventare pescatori di uomini vuol dire salvare le persone dal male. La missione degli apostoli è stata, così come la nostra, quella di portare a tutti, senza alcuna distinzione, la parola di salvezza.

La Vergine Maria, la prima credente in Cristo, ci aiuti a convertirci e a credere nel vangelo, ossia nel suo Figlio Gesù, unica nostra gioia, speranza e salvezza. Amen!

 

Commento al Vangelo della solennità dell’Epifania Anno B (6 gennaio 2024)

Prostratisi lo adorarono!

San Matteo nel suo Vangelo scrive: «Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono». Il cammino esteriore di quegli uomini era finito. Erano giunti alla meta. Ma a questo punto per loro comincia un nuovo cammino, un pellegrinaggio interiore che cambia tutta la loro vita. Poiché sicuramente avevano immaginato questo Re neonato in modo diverso. Si erano appunto fermati a Gerusalemme per raccogliere presso il Re locale notizie sul promesso Re che era nato. Sapevano che il mondo era in disordine, e per questo il loro cuore era inquieto. Erano certi che Dio esisteva e che era un Dio giusto e benigno. E forse avevano anche sentito parlare delle grandi profezie in cui i profeti d’Israele annunciavano un Re che sarebbe stato in intima armonia con Dio, e che a nome e per conto di Lui avrebbe ristabilito il mondo nel suo ordine. Per cercare questo Re si erano messi in cammino: dal profondo del loro intimo erano alla ricerca del diritto, della giustizia che doveva venire da Dio, e volevano servire quel Re, prostrarsi ai suoi piedi e così servire essi stessi al rinnovamento del mondo. Appartenevano a quel genere di persone «che hanno fame e sete della giustizia» (cf Mt 5,6). Questa fame e questa sete avevano seguito nel loro pellegrinaggio – si erano fatti pellegrini in cerca della giustizia che aspettavano da Dio, per potersi mettere al servizio di essa.

Anche se gli altri uomini, quelli rimasti a casa, li ritenevano forse utopisti e sognatori – essi invece erano persone con i piedi sulla terra, e sapevano che per cambiare il mondo bisogna disporre del potere. Per questo non potevano cercare il bambino della promessa se non nel palazzo del Re. Ora però s’inchinano davanti a un bimbo di povera gente, e ben presto vengono a sapere che Erode – quel Re dal quale si erano recati – con il suo potere intendeva insidiarlo, così che alla famiglia non sarebbe restata che la fuga e l’esilio. Il nuovo Re, davanti al quale si erano prostrati in adorazione, si differenziava molto dalla loro attesa. Così dovevano imparare che Dio è diverso da come noi di solito lo immaginiamo. Qui cominciò il loro cammino interiore. Cominciò nello stesso momento in cui si prostrarono davanti a questo bambino e lo riconobbero come il Re promesso. Ma questi gesti gioiosi essi dovevano ancora raggiungerli interiormente.

Dovevano cambiare la loro idea sul potere, su Dio e sull’uomo e, facendo questo, dovevano anche cambiare se stessi. Ora vedevano: il potere di Dio è diverso dal potere dei potenti del mondo. Il modo di agire di Dio è diverso da come noi lo immaginiamo e da come vorremmo imporlo anche a Lui. Dio in questo mondo non entra in concorrenza con le forme terrene del potere. Non contrappone le sue divisioni ad altre divisioni. A Gesù, nell’Orto degli ulivi, Dio non manda dodici legioni di angeli per aiutarlo (cf Mt 26,53). Egli contrappone al potere rumoroso e prepotente di questo mondo il potere inerme dell’amore, che sulla Croce – e poi sempre di nuovo nel corso della storia – soccombe, e tuttavia costituisce la cosa nuova, divina, che poi si oppone all’ingiustizia e instaura il Regno di Dio. Dio è diverso – è questo che ora riconoscono. E ciò significa che ora essi stessi devono diventare diversi, devono imparare lo stile di Dio.

Erano venuti per mettersi a servizio di questo Re, per modellare la loro regalità sulla sua. Era questo il significato del loro gesto di ossequio, della loro adorazione. Di essa facevano parte anche i regali – oroincenso e mirra – doni che si offrivano a un Re ritenuto divino. L’adorazione ha un contenuto e comporta anche un dono. Volendo con il gesto dell’adorazione riconoscere questo bambino come il loro Re al cui servizio intendevano mettere il proprio potere e le proprie possibilità, gli uomini provenienti dall’Oriente seguivano senz’altro la traccia giusta. Servendo e seguendo Lui, volevano insieme con Lui servire la causa della giustizia e del bene nel mondo. E in questo avevano ragione. Ora però imparano che ciò non può essere realizzato semplicemente per mezzo di comandi e dall’alto di un trono. Ora imparano che devono donare se stessi – un dono minore di questo non basta per questo Re. Ora imparano che la loro vita deve conformarsi a questo modo divino di esercitare il potere, a questo modo d’essere di Dio stesso. Devono diventare uomini della verità, del diritto, della bontà, del perdono, della misericordia. Non domanderanno più: Questo a che cosa mi serve? Dovranno invece domandare: Con che cosa servo io la presenza di Dio nel mondo? Devono imparare a perdere se stessi e proprio così a trovare se stessi. Andando via da Gerusalemme, devono rimanere sulle orme del vero Re, al seguito di Gesù.

Ebbene, domandiamoci che cosa tutto questo significhi per noi. Poiché quello che abbiamo appena detto sulla natura diversa di Dio, che deve orientare la nostra vita, suona bello, ma resta piuttosto sfumato e vago. Per questo Dio ci ha donato degli esempi. I Magi provenienti dall’Oriente sono soltanto i primi di una lunga processione di uomini e donne che nella loro vita hanno costantemente cercato con lo sguardo la stella di Dio, che hanno cercato quel Dio che a noi, esseri umani, è vicino e ci indica la strada. È la grande schiera dei santi – noti o sconosciuti – mediante i quali il Signore, lungo la storia, ha aperto davanti a noi il Vangelo e ne ha sfogliato le pagine; questo, Egli sta facendo tuttora. Nelle loro vite, come in un grande libro illustrato, si svela la ricchezza del Vangelo. Essi sono la scia luminosa di Dio che Egli stesso lungo la storia ha tracciato e traccia ancora. I beati e i santi sono stati persone che non hanno cercato ostinatamente la propria felicità, ma semplicemente hanno voluto donarsi, perché sono state raggiunte dalla luce di Cristo. Essi ci indicano così la strada per diventare felici, ci mostrano come si riesce ad essere persone veramente umane. Nelle vicende della storia sono stati essi i veri riformatori che tante volte l’hanno risollevata dalle valli oscure nelle quali è sempre nuovamente in pericolo di sprofondare; essi l’hanno sempre nuovamente illuminata quanto era necessario per dare la possibilità di accettare – magari nel dolore – la parola pronunciata da Dio al termine dell’opera della creazione: «È cosa buona». Basta pensare a figure come San Benedetto, San Francesco d’Assisi, Santa Teresa d’Avila, Sant’Ignazio di Loyola, San Carlo Borromeo, ai fondatori degli Ordini religiosi dell’Ottocento che hanno animato e orientato il movimento sociale, o ai santi del nostro tempo – Massimiliano Kolbe, Edith Stein, Madre Teresa, Padre Pio. Contemplando queste figure impariamo che cosa significa «adorare», e che cosa vuol dire vivere secondo la misura del bambino di Betlemme, secondo la misura di Gesù Cristo e di Dio stesso.

I santi, abbiamo detto, sono i veri riformatori. Ora vorrei esprimerlo in modo ancora più radicale: Solo dai santi, solo da Dio viene la vera rivoluzione, il cambiamento decisivo del mondo. Nel secolo appena passato abbiamo vissuto le rivoluzioni, il cui programma comune era di non attendere più l’intervento di Dio, ma di prendere totalmente nelle proprie mani il destino del mondo. E abbiamo visto che, con ciò, sempre un punto di vista umano e parziale veniva preso come misura assoluta d’orientamento. L’assolutizzazione di ciò che non è assoluto ma relativo si chiama totalitarismo. Non libera l’uomo, ma gli toglie la sua dignità e lo schiavizza. Non sono le ideologie che salvano il mondo, ma soltanto il volgersi al Dio vivente, che è il nostro creatore, il garante della nostra libertà, il garante di ciò che è veramente buono e vero. La rivoluzione vera consiste unicamente nel volgersi senza riserve a Dio che è la misura di ciò che è giusto e allo stesso tempo è l’amore eterno. E che cosa mai potrebbe salvarci se non l’amore?

Sono molti coloro che parlano di Dio; nel nome di Dio si predica anche l’odio e si esercita la violenza. Perciò è importante scoprire il vero volto di Dio. I Magi dell’Oriente l’hanno trovato, quando si sono prostrati davanti al bambino di Betlemme. In Gesù Cristo, che per noi ha permesso che si trafiggesse il suo cuore, in Lui è comparso il vero volto di Dio. Lo seguiremo insieme con la grande schiera di coloro che ci hanno preceduto. Allora cammineremo sulla via giusta.

Questo significa che non ci costruiamo un Dio privato, non ci costruiamo un Gesù privato, ma che crediamo e ci prostriamo davanti a quel Gesù che ci viene mostrato dalle Sacre Scritture e che nella grande processione dei fedeli chiamata Chiesa si rivela vivente, sempre con noi e al tempo stesso sempre davanti a noi. Si può criticare molto la Chiesa. Noi lo sappiamo, e il Signore stesso ce l’ha detto: essa è una rete con dei pesci buoni e dei pesci cattivi, un campo con il grano e la zizzania. In fondo, è consolante il fatto che esista la zizzania nella Chiesa. Così, con tutti i nostri difetti possiamo tuttavia sperare di trovarci ancora nella sequela di Gesù, che ha chiamato proprio i peccatori. La Chiesa è come una famiglia umana, ma è anche allo stesso tempo la grande famiglia di Dio, mediante la quale Egli forma uno spazio di comunione e di unità attraverso tutti i continenti, le culture e le nazioni. Perciò siamo lieti di appartenere a questa grande famiglia che vediamo qui; siamo lieti di avere fratelli e amici in tutto il mondo.

«Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono». Ebbene sì. Questa non è una storia lontana, avvenuta tanto tempo fa. Questa è presenza. Qui nell’Ostia sacra Egli è davanti a noi e in mezzo a noi. Come allora, si vela misteriosamente in un santo silenzio e, come allora, proprio così svela il vero volto di Dio. Egli per noi si è fatto chicco di grano che cade in terra e muore e porta frutto fino alla fine del mondo (cf Gv 12,24). Egli è presente come allora in Betlemme. Ci invita a quel pellegrinaggio interiore che si chiama adorazione. Chiediamo prostrati al Re dei re, per intercessione della sua Santissima Madre, di guidarci nel nostro pellegrinaggio terreno. Amen!

  

Commento al Vangelo di Natale Messa del giorno Anno B (25 dicembre 2023)

Il Verbo si fece carne!

«Verbum caro factum est – Il Verbo si fece carne» (cf Gv 1,14). Sì. Dio si è fatto uomo, è venuto ad abitare in mezzo a noi. Dio non è lontano: è vicino, anzi, è l’«Emmanuele», Dio-con-noi. Non è uno sconosciuto: ha un volto, quello di Gesù.

È un messaggio sempre nuovo, sempre sorprendente, perché oltrepassa ogni nostra più audace speranza. Soprattutto perché non è solo un annuncio: è un avvenimento, un accadimento, che testimoni credibili hanno veduto, udito, toccato nella Persona di Gesù di Nazareth! Stando con Lui, osservando i suoi atti e ascoltando le sue parole, hanno riconosciuto in Gesù il Messia; e vedendolo risorto, dopo che era stato crocifisso, hanno avuto la certezza che Lui, vero uomo, era al tempo stesso vero Dio, il Figlio unigenito venuto dal Padre, pieno di grazia e di verità (cf Gv 1,14).

«Il Verbo si fece carne». Di fronte a questa rivelazione, riemerge ancora una volta in noi la domanda: come è possibile? Il Verbo e la carne sono realtà tra loro opposte; come può la Parola eterna e onnipotente diventare un uomo fragile e mortale? Non c’è che una risposta: l’Amore. Chi ama vuole condividere con l’amato, vuole essere unito a lui, e la Sacra Scrittura ci presenta proprio la grande storia dell’amore di Dio per il suo popolo, culminata in Gesù Cristo.

In realtà, Dio non cambia: Egli è fedele a Se stesso. Colui che ha creato il mondo è lo stesso che ha chiamato Abramo e che ha rivelato il proprio Nome a Mosè: Io sono colui che sono … il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe … Dio misericordioso e pietoso, ricco di amore e di fedeltà (cf Es 3,14-15; 34,6). Dio non muta, Egli è Amore da sempre e per sempre. È in Se stesso Comunione, Unità nella Trinità, ed ogni sua opera e parola mira alla comunione. L’incarnazione è il culmine della creazione. Quando nel grembo di Maria, per la volontà del Padre e l’azione dello Spirito Santo, si formò Gesù, Figlio di Dio fatto uomo, il creato raggiunse il suo vertice. Il principio ordinatore dell’universo, il Logos, incominciava ad esistere nel mondo, in un tempo e in uno spazio.

«Il Verbo si fece carne». La luce di questa verità si manifesta a chi la accoglie con fede, perché è un mistero d’amore. Solo quanti si aprono all’amore sono avvolti dalla luce del Natale. Così fu nella notte di Betlemme, e così è anche oggi. L’incarnazione del Figlio di Dio è un avvenimento che è accaduto nella storia, ma nello stesso tempo la oltrepassa. Nella notte del mondo si accende una luce nuova, che si lascia vedere dagli occhi semplici della fede, dal cuore mite e umile di chi attende il Salvatore. Se la verità fosse solo una formula matematica, in un certo senso si imporrebbe da sé. Se invece la Verità è Amore, domanda la fede, il “” del nostro cuore.

E che cosa cerca, in effetti, il nostro cuore, se non una Verità che sia Amore? La cerca il bambino, con le sue domande, così disarmanti e stimolanti; la cerca il giovane, bisognoso di trovare il senso profondo della propria vita; la cercano l’uomo e la donna nella loro maturità, per guidare e sostenere l’impegno nella famiglia e nel lavoro; la cerca la persona anziana, per dare compimento all’esistenza terrena.

L’«Emmanuele», Dio-con-noi, è venuto come Re di giustizia e di pace. Il suo Regno – lo sappiamo – non è di questo mondo, eppure è più importante di tutti i regni di questo mondo. È come il lievito dell’umanità: se mancasse, verrebbe meno la forza che manda avanti il vero sviluppo: la spinta a collaborare per il bene comune, al servizio disinteressato del prossimo, alla lotta pacifica per la giustizia. Credere nel Dio che ha voluto condividere la nostra storia è un costante incoraggiamento ad impegnarsi in essa, anche in mezzo alle sue contraddizioni. È motivo di speranza per tutti coloro la cui dignità è offesa e violata, perché Colui che è nato a Betlemme è venuto a liberare l’uomo dalla radice di ogni schiavitù.

«Il Verbo si fece carne», è venuto ad abitare in mezzo a noi, è l’Emmanuele, il Dio che si è fatto a noi vicino. Contempliamo insieme questo grande mistero di amore, lasciamoci illuminare il cuore dalla luce che brilla nella grotta di Betlemme. Amen!

 

 

Commento al Vangelo di Natale Messa dell’aurora Anno B (25 dicembre 2023)

Cristo è la vera pace!

«Un giorno santo è spuntato per noi». Un giorno di grande speranza: oggi è nato il Salvatore dell’umanità! La nascita di un bambino porta normalmente una luce di speranza a quanti lo attendono trepidanti. Quando nacque Gesù nella grotta di Betlemme, una «grande luce» apparve sulla terra; una grande speranza entrò nel cuore di quanti lo attendevano. Non fu certo «grande» alla maniera di questo mondo, perché a vederla, dapprima, furono solo Maria, Giuseppe e alcuni pastori, poi i Magi, il vecchio Simeone, la profetessa Anna: coloro che Dio aveva prescelto. Eppure, nel nascondimento e nel silenzio di quella notte santa, si è accesa per ogni uomo una luce splendida e intramontabile; è venuta nel mondo la grande speranza portatrice di felicità: «il Verbo si è fatto carne e noi abbiamo visto la sua gloria» (cf Gv 1,14)

«Dio è luce – afferma san Giovanni» (cf 1Gv 1,5). Infatti, quando Gesù nacque dalla Vergine Maria, la Luce stessa è venuta nel mondo: «Dio da Dio, Luce da Luce», professiamo nel Credo. In Gesù, scrive sant’Agostino, Dio ha assunto ciò che non era rimanendo ciò che era: «l’onnipotenza entrò in un corpo infantile e non fu sottratta al governo dell’universo” (cf Agostino, Serm 184, 1 sul Natale). Si è fatto uomo Colui che è il creatore dell’uomo per recare al mondo la pace. Per questo, nella notte di Natale, le schiere degli Angeli cantano: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli / e pace in terra agli uomini che egli ama» (cf Lc 2,14).

Ebbene, «oggi una splendida luce è discesa sulla terra». La Luce di Cristo è portatrice di pace. Nella Messa della notte la liturgia eucaristica si è aperta proprio con questo canto: «Oggi la vera pace è scesa per noi dal cielo» (Antifona d’ingresso). Anzi, solo la «grande» luce apparsa in Cristo può donare agli uomini la «vera» pace: ecco perché ogni generazione è chiamata ad accoglierla, ad accogliere il Dio che a Betlemme si è fatto uno di noi.

Questo è il Natale! Evento storico e mistero di amore, che da oltre duemila anni interpella gli uomini e le donne di ogni epoca e di ogni luogo. È il giorno santo in cui rifulge la «grande luce» di Cristo portatrice di pace! Certo, per riconoscerla, per accoglierla ci vuole fede, ci vuole umiltà. L’umiltà di Maria, che ha creduto alla parola del Signore, e ha adorato per prima, china sulla mangiatoia, il Frutto del suo grembo; l’umiltà di Giuseppe, uomo giusto, che ebbe il coraggio della fede e preferì obbedire a Dio piuttosto che tutelare la propria reputazione; l’umiltà dei pastori, dei poveri ed anonimi pastori, che accolsero l’annuncio del messaggero celeste e in fretta raggiunsero la grotta dove trovarono il bambino appena nato e, pieni di stupore, lo adorarono lodando Dio (Vangelo). I piccoli, i poveri in spirito: ecco i protagonisti del Natale, ieri come oggi; i protagonisti di sempre della storia di Dio, i costruttori infaticabili del suo Regno di giustizia, di amore e di pace.

Nel silenzio della notte di Betlemme Gesù nacque e fu accolto da mani premurose. Ed ora, in questo nostro Natale, in cui continua a risuonare il lieto annuncio della sua nascita redentrice, chi è pronto ad aprirgli la porta del cuore? Uomini e donne di questa nostra epoca, anche a noi Cristo viene a portare la luce, anche a noi viene a donare la pace! Ma chi veglia, nella notte del dubbio e dell’incertezza, con il cuore desto e orante? Chi attende l’aurora del giorno nuovo tenendo accesa la fiammella della fede? Chi ha tempo per ascoltare la sua parola e lasciarsi avvolgere dal fascino del suo amore? Sì! È per tutti il suo messaggio di pace; è a tutti che viene ad offrire se stesso come certa speranza di salvezza.

La luce di Cristo, che viene ad illuminare ogni essere umano, possa finalmente rifulgere, e sia consolazione per quanti si trovano nelle tenebre della miseria, dell’ingiustizia, della guerra.

«Venite tutti ad adorare il Signore». Con Maria, Giuseppe e i pastori, con i Magi e la schiera innumerevole di umili adoratori del neonato Bambino, che lungo i secoli hanno accolto il mistero del Natale, anche noi, lasciamo che la luce di questo giorno si diffonda dappertutto: entri nei nostri cuori, rischiari e riscaldi le nostre case, porti serenità e speranza nelle nostre città, dia al mondo la pace. Il Signore, che ha fatto risplendere in Cristo il suo volto di misericordia, ci appaghi della sua felicità e ci renda messaggeri della sua bontà. Amen!

 

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